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Dopo km e km di autostrade percorsi ogni giorno per documentare lo sfacelo, dopo decine di interviste per raccontare i disagi, sono giunta a una conclusione: i cantieri e le code in autostrada hanno abbattuto le barriere che esistono tra le varie fasce sociali. Non c’è ricco che tenga, la Ferrari, la Porche stanno in coda tanto quando la povera Fiat Punto resistita negli anni, la Idea ammaccata. Non ci sono più ricchi e poveri, in coda siamo tutti maledettamente uguali, disperati, innervosita, impotenti. Persino Briatore! Certo, magari quello sulla Ferrari sta andando al casinó di Montecarlo, quello sulla Fiat punto sta andando a lavorare in cantiere anche se è sabato sera. Ma tutti si sta in coda uguali, non ci sono precedenze. Nessuno può volare. Si aspetta e basta. Perfino le ambulanze, devono stare in coda, accidenti. Grazie Autostrade e Salt, di averci regalato questa uniformità di classe (sociale)! Non ci era riuscito nessuno! E grazie di averci regalato talvolta una notorietà nazionale, laddove persino il Corriere della Sera questa estate ha citato il “caso Liguria” perché anche editori e giornalisti rimanevano in coda mentre andavano a mettere i piedi nel nostro mare, nella casètta (con la “e” alla bauscia) di Bergeggi o Sestri Levante.

Nella battaglia che l’editore di Primocanale Maurizio Rossi porta avanti da anni, ho notato un’altra cosa: non bisogna mai insistere per ottenere un’intervista su questo tema, tutti sono egualmente disponibili a sfogarsi, perché è l’unica cosa che resta, il lamento. Perché altre armi nessuno ne ha. L’unica che potrebbe sfoderare qualche carta sarebbe la Politica, quella che per anni ha lasciato fare ai concessionari ciò che volevano, senza controllare che rispettassero le regole e facessero le manutenzioni, che ora ci troviamo in massa, in Liguria.

Sulla scia della tragedia di ponte Morandi, per un periodo, Autostrade è stata costretta ad applicare sconti ridicoli dei pedaggi o esenzioni. Poi tutto finito. Cioè finiti gli sconti-elemosina, ma non i cantieri, che proseguono ogni giorno, con le code al seguito. E la politica fa finta di nulla, non impone nulla se non una doverosa interruzione dei cantieri nei periodi di ponti o festività.

Ascolto la radio mattina e sera: myway Liguria, si chiama così l’info traffico, sciorina code come fossero zuccherini: “Sulla A10 tra Varazze e il bivio con la A26, tempi di percorrenza di 45 minuti” ma anche in direzione opposta. E poi “sulla A12 tra Lavagna e Rapallo ma anche tra Recco e Chiavari”... ogni maledetto giorno. Ma ci rendiamo conto che ci stanno dicendo che invece che metterci dieci minuti, a fare un tratto, ci mettiamo il quadruplo!

E attenzione, le code non si chiamino più code ma “le auto sono in fila” dicono. L’altro giorno in una mail di Autostrade leggevo “Accodamenti”, insomma accorgimenti per edulcorare la pillola, divagazioni linguistiche per dire che siamo tutti fottuti, per mesi, per anni, e non osate chiedere per quanto ancora, guai al mondo! Perché “la Liguria è unica per la sua MORFOLOGIA”, parolona spesso rubata dal vocabolario per giustificare il disastro, per dirci che abbiamo tanti tunnel e viadotti come nessuno al mondo, quindi portate pazienza. Pazienza un bel fico secco!

Qualcuno faccia qualcosa, almeno imponga ai concessionari di non far pagare nulla in questi pericolosi slalom fra corsie uniche, cantieri, ruspe, poveri operai che mettono e tolgono paletti. Qualcuno faccia qualcosa.

Ho letto con il consueto piacere il commento che Stefano Rissetto ha pubblicato ieri in questa stessa sezione (LEGGI QUI) ma rispetto ad argomenti diversi, la Sampdoria per esempio, questa volta non mi trovo d’accordo con lui. Io, che ho ricalcato in tutto e per tutto le sue orme di provinciale-pendolare abbacinato dalla metropoli, non vorrei essere in nessun posto del mondo, se non qui.

E il ‘qui’ va georeferenziato con precisione: non è riferito a Genova in generale ma proprio al suo centro, a quel triangolo immaginario che posso tracciare tra piazza della Nunziata, Caricamento e piazza Della Vittoria. In quest’area c’è il mio mondo, tutto quello che desidero e che amo e se non fossi qui, se non avessi scelto di chiamare ‘casa’ queste vecchie pietre, probabilmente a Genova non mi sarei fermato.

Sono forse sporchi e malfamati, i nostri vicoli? Può essere, anzi, lo sono senz’altro! Eppure è questa ragnatela di stradine e piazzette, di madonne, campanili, chiese e bassi a rendere unico il sapore, il profumo di questa città.

Che sa essere grande, tentacolare e talvolta minacciosa per noi provinciali: penso a quei palazzi giganteschi dei suoi ordinati quartieri residenziali, per esempio. In quelli non vivrei mai, mi sentirei il puntino anonimo di un formicaio. Ma nel centro no, quella sensazione non l’avverto. Conosco e mi conoscono tutti: il bar sotto casa, il ristorante all’angolo, il besagnino e il minimarket: che bella questa Genova che ha 570mila abitanti e ci si vive come in un paesotto.

E’ pericoloso il centro storico? Alla mia signora, che vorrebbe esiliarmi a Carignano o Albaro (giammai!), ricordo spesso che è ben più probabile essere aggrediti e derubati in via Venti o De Ferrari di quanto non lo sia nei vicoli. E che in tutte le cose bisogna usare la testa: non si nuota nella vasca dei piranha così come non ci si avventura in vico Mele in piena notte.

Certo, un’ammissione va fatta: i vicoli di Genova non sono un unicum indistinguibile. Ci sono zone di alto prestigio, altre che hanno di recente ritrovato il loro antico lignaggio, altre ancora che sono rimaste periferiche e abbandonate. Ci sono vie di bei palazzi, mi viene in mente San Luca, dove la notte è diventato un far west e in cui vivere non è piacevole. Ma più che andarsene credo sia il caso di pretendere rigore, controllo e decoro: perché quando l’amministrazione si impegna i risultati li ottiene.

E allora esaltiamola questa vecchia Genova che non ha perduto la sua vitalità: è piena di turisti certo, tanti anche in zone che i genovesi frequentano poco (fate un giro estivo alla Maddalena o alle Vigne), ma è rimasta autentica, vera. Il besagnino pachistano riempie la sporta ad anziane signore ingioiellate, persi in ogni angolo ci sono calzolai, corniciai, pellettieri, droghieri (quelli che vendono spezie e saponi, non gli altri!) e una miriade di commercianti di ogni tipo in cui trovare l’introvabile.

Ed è vero, certo: ci sono i giovani che fanno casino, i palazzi che a ristrutturarli figuriamoci, i senza tetto e le signorine scosciate. Ma è la promiscuità di tutti loro con la Cattedrale e coi i palazzi nobiliari dagli affreschi mozzafiato che rende Genova unica nel mondo.

A volte mi capita di piazzarmi col mio sigaro davanti a Palazzo Tursi e guardare vico Del Duca, quella stradina che dalla via Aurea sprofonda nel cuore della città segreta. Dagli alti, ai bassi: esiste luogo al mondo in cui potere e meretricio sono fisicamente più vicini? Dal paradiso all’inferno in quattro passi: e non sono tanto sicuro di sapere quale sia l’uno o l’altro.

Caro avvocato Romei, le spieghiamo noi perché è difficile trovare un acquirente per la Sampdoria:

1) La società ha un indebitamento forte, scenario forse non peggiore rispetto ad altri club di serie A ma complicato dalla molteplicità dei creditori: fisco, banche, agenti, fornitori. Tutti i soggetti sono disponibili a transare al 40/50%? Di certo è escluso che il fisco tratti, al massimo può concedere una dilazione.

2) C’è un azionista che lei conosce molto bene, anzi che lei ha portato alla Sampdoria, mediando in gran segreto con successo con la famiglia Garrone-Mondini: un certo Massimo Ferrero, che ora vuole dei soldi per uscire e per consentire un aumento di capitale. Se non ci fosse, sicuramente si passerebbe già al punto 1 che le abbiamo spiegato.

3) La posizione in classifica della squadra non incentiva gli eventuali investitori, consapevoli di come entrare oggi nella Sampdoria significhi probabilmente partire dalla serie B.

4) C’è qualcuno che, per convenienza economica, preferirebbe che la Sampdoria fallisse e ripartisse dalla serie D, ma pulita dai debiti. Tanto più che la categoria del nuovo inizio potrebbe, per meriti sportivi e importanza della piazza, non essere la D, ma la C o addirittura la B, se le istituzioni del calcio tenessero conto in via compensativa delle circostanze uniche dell’avvio della crisi, una fase in cui le stesse istituzioni non avevano brillato per attenzione e vigilanza. Una serie B che peraltro pare la probabile destinazione di una squadra che, come il CdA e i tifosi, a onor del vero sta facendo tutto il possibile per cercare di restare nella massima serie, anche se ormai con speranze ridotte al lumicino.

Se le nostre spiegazioni non la convincono, avvocato Romei, se le sembra così strano che nessuno voglia la Sampdoria, perché non lo trova lei un acquirente, visto che nove anni fa era stato proprio lei a trovare la “soluzione Ferrero”, liberando i Garrone Mondini dal “peso” di essere proprietari della Sampdoria, un'iniziativa da lei più volte, anche recentemente, rivendicata a titolo di merito?

È lei o non è lei, avvocato Romei, che ha rifilato Ferrero ai tifosi, ormai nove anni fa? Si sente o meno primo responsabile di quella scellerata operazione? Da professionista quale lei è, non avrebbe dovuto per prima cosa svolgere le corrette analisi, o “filtri” come si vogliano chiamare, sul soggetto proposto alla proprietà, per assicurare alla famiglia Garrone-Mondini che la Sampdoria sarebbe finita in mani serie e affidabili? È ancora convinto di aver fatto la cosa giusta per la Sampdoria? Non si sente in colpa?

Mi innamorai del centro storico ai tempi dell’università, quindi quarant’anni fa. Prima di frequentare le aule di giurisprudenza a Balbi 5, di Genova conoscevo sì e no le strade che, dalla stazione Brignole o dai caselli Nervi ed Est, portavano allo stadio. Poi via Venti e De Ferrari, stop. Fino a fine liceo, ero sceso a Principe una sola volta nella vita. Ero e resto un provinciale, prima pendolare e poi immigrato, solo da qualche anno posso dire di conoscere abbastanza bene questa città, anche perché amo misurarla a piedi, avendo oltretutto venduto la macchina non appena ero venuto a viverci.

Avevo rinunciato all’automobile perché, grazie ai soldi messi faticosamente da parte con i primi stipendi da giornalista, avevo trovato casa nei vicoli. Avevo dovuto aspettare cinque anni di risparmi, prima di comprare un piccolo bilocale dal soffitto a travi alto due metri, praticamente una scatola da scarpe, perché al giornale dove lavoravo, appena entrato, uno dei vecchi mi disse “Peccato, l’anno prossimo chiudiamo”. In venticinque anni al Mercantile, ogni anno il ritornello era “l’anno prossimo chiudiamo”. Figuriamoci se in quelle condizioni avrei potuto affrontare un mutuo. Poi è arrivato l’anno in cui abbiamo chiuso davvero, ma io nel frattempo - sempre mettendo da parte i soldi necessari per schivare le ipoteche delle banche - avevo venduto la scatola da scarpe e comprato una casa che poteva dirsi tale, pazienza se priva di terrazzi. Ma nei vicoli non puoi avere tutto, ascensore vista terrazzi vicinato, a qualcosa devi sempre rinunciare.

Da qualche tempo non vedo l’ora di venir via da qui. Non tanto per tornare a Sestri Levante, per ora il lavoro non me lo permette e sui treni ci ho già passato tanta vita. Quanto per trovare un posto più respirabile di una zona che non è più quella che avevo sposato. O forse sono io che non ho più quella vena bohémienne della giovinezza. Fatto sta che vedo la gente andare via da qui, e chi viene sono i giovani stranieri coi valigioni che si alternano negli appartamenti ad affitto turistico breve, ce ne sono dappertutto anche nel mio palazzo e a volte per affollamento mandano fuori uso l’ascensore. In piccolo, quello che è successo irreversibilmente a Venezia: da città vera ad albergo città, autoesiliatisi in terraferma i residenti.

Dicono che questa zona rinascerà, non appena le vie di comunicazione con Milano la renderanno l’ideale affaccio sul mare di chi vive oltre Appennino. Ma campa cavallo e nel frattempo i negozi chiudono, gli abitanti diminuiscono e vengono sostituiti dai fantasmi. Nel mio vicolo ogni sera c’è una sorpresa: uno spacciatore indaffarato a smanettare sul cellulare, uno che nasconde la mercanzia nelle centraline telefoniche o nei contatori scardinati, ieri c’era uno che dormiva per terra in un sacco a pelo, stamattina c’era ancora, mi è venuto perfino il sospetto che gli fosse capitato qualcosa, poi al pomeriggio è sparito.

La prima emergenza di Genova sarebbero i vicoli, per la fatiscenza urbanistica ed edilizia e l’insicurezza sociale che aumenta col venir meno della luce naturale, ma sembra che non ne importi nulla a nessuno, malgrado tra la sede del Comune e il degrado assoluto ci siano davvero pochi passi, pochissimi metri. E poi c’è il fine settimana con i suoi rituali, con il baccagliare fino a notte fonda di chi scambia questo territorio come un luna park dove dietro le finestre non c’è gente che vorrebbe prender sonno. Tutta la settimana impazza il rumore ossessivo dei mezzi dell’igiene urbana, che devono certamente girare di notte, ma i loro barriti e grugniti (è l’una e trentacinque circa, mentre scrivo, e se ne ode un rombo) scandiscono le tenebre. E poi le urla degli ubriachi, i segni delle sbornie, il vandalismo, i calci alle saracinesche, ogni tanto le sirene delle ambulanze o delle forze dell’ordine.

Tutti gli amori finiscono. Sarà che dalla pandemia, e dalla conseguente reclusione domestica, patisco la mancanza di un terrazzo anche minimo. Sarà che quando avevo vent’anni era tutto diverso. O forse era diversa anche questa zona, che da una certa ora in poi si perde in una notte più buia della notte. Generando insicurezza e apprensione.

Lavoro ancora, per fortuna, e sempre per fortuna da quando faccio il giornalista ho sempre avuto le redazioni a portata di camminata: quindici-venti minuti il Mercantile, ora cinque-dieci Primocanale. Ma allungherei volentieri il percorso, anche usando il treno che a Genova è la vera metropolitana, per sistemarmi in una casa meno ostaggio della desolazione, magari con il mare meno lontano di questo mare soffocato del bacino antico, che è solo andirivieni di navi passeggeri che spargono un fumo nerocarbone. Mi affatica solo il pensiero del trasloco: i libri, gli abiti, i dischi, la videoteca, tutto cresciuto rispetto a quando quattordici anni fa mi ero trasferito da un portone a un altro distante ottantotto passi, me li ricordo perché dalla scatola da scarpe alla casa tutto il trasferibile era stato portato a dorso di Stefano. Stavolta non potrei perché libri, abiti, dischi, video e anche mobili sono aumentati.

Allora, tra il 2008 e il 2009, non riuscivo a lasciare la mia vecchia scatola da scarpe, quasi ormai vuota a parte la rete del letto. A volte penso che mi piacerebbe rivederla e scoprire come sia adesso. Da questa, invece, ormai non penso che ad andarmene. Se solo sapessi dove. E come.

GENOVA - Basta al Superbonus edilizio altrimenti i conti pubblici italiani saltano per aria. Credo che basti e avanzi questa motivazione per dire che la decisione del governo fosse inevitabile. Ma è anche una decisione giusta? Qui il discorso si complica. A me è subito venuta in mente una cosa: Superbonus non fa rima né con certezza né con credibilità. È l'ennesimo capitolo, cioè, di una storia ampiamente vista e subita alle nostre latitudini.

Dunque: secondo la premier Giorgia Meloni, "il Superbonus ci è già costato 105 miliardi. Andando avanti così, qualunque cosa si immaginasse non sarebbe realizzabile, perché ci mancherebbero i soldi. Saremmo al default". Aggiungiamoci che stando ad alcune rilevazioni sarebbe stato ristrutturato solo il 3 per cento del patrimonio immobiliare italiano e possiamo concludere che qualcosa, più di qualcosa, non ha funzionato.

Intervistato dal Secolo XIX, Pierluigi D'Angelo, presidente degli amministratori condominiali di Genova, osserva: "I prezzi sono quadruplicati. Soltanto il costo dei ponteggi è balzato da 12 a 48 euro al metro quadrato". È un esempio e vi faccio venia del resto dell'elenco che potrei fare: come minimo c'è stata una omissione di vigilanza. Una omissione che ha riguardato pure, soprattutto nei mesi scorsi, le manovre illegali messe in atto per "sfruttare" il Superbonus.

Difatti c'è un altro passaggio dell'intervista a D'Angelo che colpisce: "L'idea di fondo era: tranquilli, tanto paga lo Stato". Piccolo particolare: lo Stato siamo tutti noi! Ecco, ce n'è abbastanza per dire che da questa brutta storia nessuno può chiamarsi fuori: il governo che ha varato il Superbonus, i cittadini, gli imprenditori, le banche e l'esecutivo attuale. Il quale deve sì tenere i conti pubblici in ordine, ma non può farlo con iniziative che dalla sera alla mattina creano un vero sconquasso sociale. Nella sola Liguria, secondo la Filca Cisl, rischiano il posto 5.500 addetti. E decine di aziende possono fallire.

Non sono una novità, l'Italia è da tempo il Paese del "nessuna certezza". Le periodiche riforme delle pensioni sono lì a testimoniarlo, con diritti acquisiti che non lo sono affatto e con misure che traguardano solo il consenso a brevissima scadenza. Ora, passi per i politici che non hanno l'obbligo di essere onniscienti (in realtà potrebbero essere degli ignoranti patentati, basta che prendano i voti), ma gli uffici?

Quando questa storia del Superbonus ha preso corpo, possibile che nessuno abbia avvisato che si sarebbero sfasciati conti? I signori che dovrebbero vigilare sul bilancio pubblico in ragione delle decisioni assunte dai governi pro-tempore o sono in malafede o sono incapaci: in entrambi i casi dovrebbero fare fagotto.

E non è l'unico provvedimento politicamente giusto ma concretamente realizzato in modo pessimo. Prendiamo il reddito di cittadinanza: idea ottima, sull'applicazione lasciamo perdere. Un vicepremier, Luigi Di Maio, allora leader dei Cinque Stelle, se ne uscì così: "Abbiamo abolito la povertà!". Una castroneria senza pari, però nessuno lo avvertì che appunto di ciò trattavasi.

Ma anche noi giornalisti dovremmo essere più attenti. Una ministra della Repubblica, Elsa Fornero, riuscì a riformare la previdenza producendo migliaia di esodati, cioè cittadini che non avevano più diritto allo stipendio ma neppure alla pensione. Chiedendo un sacrificio, il 4 dicembre 2011, pianse davanti a tutti, la Fornero. Oggi va ospite nei talk politici in televisione a spiegare come si fa! Capito, la Prof che produsse gli esodati non soltanto viene invitata, ci fa pure la morale e soprattutto ci racconta come si tengono a posto i conti.

Il Superbonus si incastona perfettamente in queste vicende: nessuna certezza, perché si cambiano le regole in corsa quando nessuno degli interessati se lo aspetta. E credibilità solo in parte. Se Giorgia Meloni voleva rassicurare Bruxelles non c'è dubbio che lo abbia fatto, costi quel che costi. E ha ragione. Ma non è giusto, per tornare all'inizio.

Esiste anche una credibilità non meno importante verso i cittadini di casa. Lei, Meloni, con il decreto sui rave (ha dovuto fare marcia indietro sui contenuti tanto era mal scritto), i Pos e le accise sui carburanti ha già contribuito a questo Paese senza certezze né credibilità. Ora, dunque, farà bene a porsi in modalità ascolto e trovare sul Superbonus una via d'uscita degna di tal nome. Quanto a partiti e movimenti, sarebbe bene che la smettessero con la vergogna di darsi la colpa l'un l'altro su quanto sta avvenendo. In Parlamento vi mandiamo, cari signori della politica meschina, per cercare e trovare delle soluzioni. Delle vostre beghe da cortile non ci frega niente!