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La Pasqua è un giorno di speranza, dunque parlare e scrivere di sanità in questa giornata spero sia di buon auspicio. Ieri ho letto che la popolazione italiana in due anni è scesa quasi del quattro per cento e che le nascite sono ulteriormente calate. Se si andrà avanti così nel 2225 nascerà l’ultimo italiano. Alla Liguria il solito primato di regione più anziana d’Italia. L’ansia aumenta dopo aver moderato pochi giorni fa la presentazione di tre libri del professor Matteo Bassetti, grande infettivologo del San Martino, scienziato che parla chiaro e soprattutto non ha peli sulla lingua.

La conferenza si è chiusa affrontando un tema che a me, anziano, preoccupa moltissimo, cioè che insieme al crollo delle nascite assistiamo al crollo dei medici. Un calo pauroso anche a Genova che evidentemente la politica nazionale degli ultimi trent’anni, quindi la responsabilità o le colpe sono assolutamente distribuite da sinistra a destra passando per il centro, non ha affrontato nel modo giusto anche se i segnali e addirittura gli appelli dei camici bianchi erano fortissimi.

Erano gli anni in cui i politici inneggiavano ai “tagli”, chi più tagliava più raccoglieva consensi e voti. Qualche volta l’euforia da taglio veniva lievemente moderata con l’aggiunta della parola giustizialista: sprechi. La politica del “taglio degli sprechi” soprattutto nella sanità pubblica, era la bandiera dei ministri che sedevano sulla delicata poltrona della Salute pubblica. Ospedali di paese? Inutili e addirittura pericolosi: via. Ospedali di periferia? inutili e pericolosi: via. Troppi reparti specializzati in una regione? Ecco i doppioni e i tripploni!| Via anche questi! E, ammettiamolo, anche noi giornalisti abbiamo spesso sostenuto questa tendenza nella frenesia (peraltro in alcuni casi anche motivata) della caccia alle spese inutili o peggio, sbagliate chissà per quali abbietti motivi.

Leggo su “Wired” alcune considerazioni con numeri al seguito: lo stato in cui versa oggi la sanità pubblica non è frutto di contingenze, ma un problema ormai strutturale, derivante da scelte sbagliate di finanza pubblica che “nell'arco di 40 anni hanno contribuito a indebolire un servizio sanitario considerato, nonostante tutto, ancora tra i migliori al mondo.” E ringraziamo i medici e gli infermieri che ci hanno aiutato nella pandemia. Ecco i numeri: “Nel 2018 l'Italia ha speso per la salute l'8,8 per cento del Pil, peggio di Stati Uniti (14,3%), Germania (9,5%), Francia (9,3%) e Regno Unito (7,5%), ma sostanzialmente in linea con la media Ocse, ferma al 6,6%. Sotto di noi solo i paesi dell'Europa orientale, oltre a Spagna, Portogallo e Grecia.”

La Fondazione Gimbe ha calcolato che la maggior parte di tagli “sia stata eseguita tra il 2010 e il 2015, cioè con i governi di Silvio Berlusconi e Mario Monti”, un definanziamento di 37 miliardi. Quasi 25 miliardi di euro bloccati dalle finanziarie di quel periodo. Dodici miliardi sono stati utilizzati per obbiettivi di finanza pubblica tra il 2015 e il 2019 quando hanno governato Letta, Renzi, Gentiloni e Conte. In questo periodo c’è stato un calo di 46 mila addetti tra medici e infermieri.

Ricordo una puntata di “Dica33” la trasmissione di medicina di Primocanale di una quindicina di anni fa, quando un rappresentante sindacale dei medici ospedalieri dell’emergenza raccontò con toni fortemente preoccupati come sanitari abbondantemente ultrasessantenni facessero turni di notte stressanti per un trentenne ai pronto soccorso degli ospedali, per segnalare con questa testimonianza, l’impressionante calo di camici bianchi. Noi, forse, facemmo spallucce pensando: arriveranno i giovani medici, quelli che credevamo dessero l’assalto ai concorsi per entrare nelle facoltà di Medicina. Ma con la forsennata scelta del numero chiuso non era così. Meno popolazione, meno giovani, meno medici, più vecchi come me.

Il risultato è che il mio incubo è quello di un paese che non avrà più medici, prima di non avere più italiani, almeno per un buon numero di anni, ammesso che esista una qualche politica finalmente ragionevole, che riesce non so come, a immettere nuovi medici nel servizio sanitario nazionale. Da dove i medici fuggono magari per andare all’estero (anche i veterinari) dove gli italiani laureati in Medicina sono apprezzatissimi (evidentemente la nostre scuole sono ancora ottime) , dove sono pagati bene o molto bene (mi dicono per esempio in Norvegia) e dove esiste un serio scudo penale che tutela giustamente chi fa questo mestiere.

Ecco, nel giorno di Pasqua ho la speranza che succeda qualcosa. Che la sanità pubblica torni a essere quella riconosciuta tra le migliori al mondo, magari con un corretto rapporto con la sanità privata convenzionata. In un sistema con nuovi ospedali più utili di lunghissimi ponti sugli stretti della penisola, e di una rete territoriale che, senza riproporre “i piccoli, inutili e pericolosi” ospedali di paese, svolga la funzione di filtrare gli accessi ai grandi centri super-specialistici. Che la tanto decantata “appropriatezza” cancelli esami o visite inutili (ma mi pare molto difficile questa scelta in un paese dove i medici rischiano anche le botte in corsia). Mi auguro, infine, che ai medici in trincea, in prima linea, che non hanno tempo e possibilità di svolgere attività privata, siano riconosciuti stipendi più alti. Lo stesso agli infermieri.
Non vorrei essere il ministro, e nemmeno l’assessore ligure alla Sanità.