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«E adesso giochiamo i playoff per andare in serie A», ha detto Andrea Pirlo dopo la partita con la Reggiana. E non è tanto il fatto che quando si gioca si prende gusto a giocare, ma una questione di peso specifico che la Sampdoria può buttare in questo volatone finale: è una delle squadre più in forma, meno logorate dallo stress di mantenere la posizione, con una rosa finalmente ampia e di qualità (fatto salvo il doloroso forfeit di Pedrola) e con un buon numero di giocatori in fase ascendente, con un margine di crescita di condizione a disposizione. Parliamo di Esposito, Borini, De Luca, Piccini, Benedetti, Ricci per citare giocatori che – reduci da infortuni o da qualche battuta a vuoto – non sono ancora al top. Per non parlare della panchina in cui domenica hanno trovato posto giocatori che in B sarebbero titolari dovunque, come Verre, Kasami, Stojanovic, Leoni & C.
Domenica è stata una giornata di emozioni forti, cominciata con la toccante passerella di Sven Goran Eriksson, l’allenatore gentiluomo che sta vivendo il momento più duro della sua vita con una dignità e un coraggio che non possono che rimandare al nome di Gianluca Vialli. Un abbraccio forte, sentito, vero, senza nulla di retorico, quello fra lui e i suoi vecchi ragazzi e con la tifoseria intera. Poi, le emozioni sono state quelle del campo e – chissà se è stato un caso o se le intense vibrazioni che hanno accompagnato il saluto al Rettore di Torsby hanno funzionato anche da spinta – la Sampdoria di Pirlo ha preso in mano la partita fin da subito, come in pochissime occasioni precedentemente. C’è stato anche da soffrire, fino alla festa finale. Toccata dalle lacrime di delusione di Pedrola, il talento più puro, con Esposito, della Samp attuale: la fitta e quel sortilegio che ancora non lo abbandona. E anche in questo caso, lo stadio intero ha percepito, è rimasto coinvolto, ha cercato di trasmettere consolazione e incoraggiamento al giocatore con applausi affettuosi.
C’è stato anche un lutto, appreso in serata: la morte di un grandissimo del calcio, Luis Cesar Menotti, che a Genova ha solo vissuto pochi mesi senza riuscire a ripetere grandi risultati come altrove. Ma la grandezza dell’uomo, che va oltre il calcio, non si discute. Infine, l’appendice stonata e inappropriata, gli scontri tra (numericamente modeste) fazioni blucerchiate e rossoblù, fortunatamente un’eccezione per Genova dopo anni di convivenza pacifica.
Tornando al campo e all’obiettivo playoff centrato, c’è un solo concetto che rappresenta il marchio in filigrana del percorso fatto fin qua in questa stagione: la crescita. Di Andrea Pirlo, arrivato come tecnico che doveva fare esperienza e, nei mesi, ha dimostrato due doti fondamentali: la capacità di assumersi le responsabilità, fare da collante, plasmando e cementando il gruppo e quella di possedere duttilità tattica e capacità di adattamento alle situazioni contingenti e alle disponibilità tecniche. E’ cresciuto il tecnico ed è cresciuto quel gruppo di ragazzi, spaurito all’inizio, che si sono ritrovati ad affrontare un campionato difficile con pochissima esperienza e un’età verdissima, ma che oggi – da Stankovic a Ghilardi, da Facundo a Leoni, da Yepes a Giordano, da Esposito a Pedrola, maledizione a parte – hanno guadagnato considerazione, consapevolezza, valore e anche spazio nelle selezioni nazionali. Infine è cresciuta la società, che in autunno aveva un presidente amatissimo, Marco Lanna, ma non operativo (per scelta della nuova proprietà) e oggi ha un presidente ambizioso e pieno di voglia di fare come Matteo Manfredi, ha allontanato, si spera definitivamente, l’ombra del patron precedente che i tifosi non vogliono neanche più sentir nominare, ha un direttore sportivo giovane e preparato come Andrea Mancini, che ha saputo fare mercato in una situazione di difficoltà estrema, mentre appare meno centrale la figura di Nicola Legrottaglie, a suo tempo voluto da Radrizzani. L

La Sampdoria ha una nuova sede, sta per riavere pienamente operativo il “Mugnaini”; sarà rinforzata nella struttura manageriale (da tempo di parla di una figura di esperienza da affiancare a Mancini junior) e subirà ritocchi praticamente in tutti i settori. Intanto, Manfredi lavora per dare nuove energie economiche al club, che dovrà soffrire ancora una sessione di mercato per i vincoli noti ma che avrà, nell’immediato futuro, un tesoretto che potrebbe arrivare dal rientro di Audero e, in caso di recompra da parte del Barcellona, dalla cessione di Pedrola.
La Banda Pirlo prova a mettere le mani sulla serie A: non c’è nulla di facile, ma non è una sfida impossibile. La Sampdoria cresciuta dopo questo anno tutt’altro che facile ha la voglia di provarci. Dovesse centrare l’impresa, ha la forza per affrontare la serie A, perché in meno di dodici mesi Sampdoria è di nuovo un nome che piace del calcio italiano ed è di nuovo una società; altrimenti, sarà l’obiettivo, senza esitazioni, della stagione 2024-25.

Dice il governatore ligure Giovanni Toti: “Abbiamo il numero di occupati più alto nella storia di questa regione”. Poi, però, deve convenire con il segretario regionale della Cisl, Luca Maestripieri: “Ci sono ancora troppi contratti a termine, troppe realtà che non rispettano i diritti fondamentali dei lavoratori, troppi impieghi pagati poco”. Toti e Maestripieri compiono un esercizio di rinuncia all’ipocrisia. Vedremo se ci saranno seguiti concreti.

Ma non tutti fanno questo gesto di onestà intellettuale. Il Primo Maggio è passato solo da qualche giorno, siamo ormai nel pieno della campagna elettorale per le europee e ogni partito affila gli argomenti che vuol cavalcare. Noi elettori siamo pronti a farcene un ragione, però…

Per esempio, a gennaio 2025 chi non supera i 28.000 euro di retribuzione in una famiglia monoreddito troverà 100 euro in più legati alla Tredicesima. Matteo Renzi lo ha ampiamente dimostrato con gli 80 euro dell’epoca: non sarà una grossa cifra, ma è meglio di niente. E va bene.

Ma il governo guidato da Giorgia Meloni detta Giorgia, come chiede di votarla alle europee, in origine ha omesso che ci sarà il 23 per cento di tassa, quindi i 100 euro diventano 77. Inoltre: doveva per forza annunciarlo adesso, visto che non è riuscito a trovare i soldi necessari a finanziare subito il bonus? Poche balle: la ragione è banalmente elettorale. In Italia saremo anche poveracci, ma mica siamo scemi!

Non è finita. Il salario minimo è diventato un mantra e sta per trasformarsi in un referendum per il quale saranno raccolte le firme. Questione di opinioni. Però mi aspetterei che il leader della Cgil, Maurizio Landini, la segretaria del Pd Elly Schlein e i sostenitori del provvedimento dicessero fino in fondo la verità. Chiarendo, cioè, che i famosi 9 euro all’ora da loro proposti li prendono quasi tutti. Poi, certo, c’è chi non li percepisce.

Ad esempio le guardie particolari giurate e i servizi fiduciari, che con il nuovo contratto tuttavia si avvicinano a quella soglia. E ancora i/le badanti, perché le associazioni familiari che fanno capo a Cgil e Pd si sono fatte (giustamente) sentire a tempo debito. Ah, pure i soci-lavoratori delle cooperative possono non arrivare a nove euro, perché una norma stabilisce che ad essi vanno applicati i contratti collettivi di lavoro ma per le stesse cooperative è più facile derogare, ricorrendo ai loro regolamenti. Non bisogna inoltre dimenticare le migliaia di partite Iva, finti autonomi che invece svolgono attività dipendente non riconosciuta e quindi il salario minimo non è applicabile. Sono tutte deroghe delle quali la Cgil, il Pd e compagnia cantante non parla. Figurarsi se lo farà in campagna elettorale.

Ecco, un Primo Maggio davvero diverso sarebbe quello che festeggiasse riforme strutturali essenziali, come la cancellazione delle decine di contratti firmati dalle sigle più disparate. Si prenda il migliore economicamente, si applichi quello e gli altri vengano ipso facto cancellati. Non si può? Non si vuole.

Oppure prendiamo la storia degli incidenti sul lavoro, che ogni anno mietono 3 vittime al giorno, più decine di feriti. Basterebbe stabilire che chi si è aggiudicato un appalto risponda direttamente della sicurezza del lavoro, anche se dovesse affidare in sub-appalto delle attività. C’è da scommettere che ci sarebbe subito un riscontro positivo. Invece niente. Non si può? Non si vuole.

L’articolo uno della nostra bella Costituzione stabilisce che “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Tutte le forze politiche fanno a gara nel ricordare proprio questo passaggio della Carta. Il Primo Maggio, poi, non se ne dimentica nessuno, ma proprio nessuno. Già all’indomani, però, si passa ad altro.

GENOVA - La battaglia contro la droga, che uccideva quasi tutti i giorni giovani vite in una progressione spaventosa, era diventata una emergenza sociale assoluta. Erano anni duri in assoluto, in una città che aveva cominciato la sua pesante trasformazione in un contesto  difficile. La caduta del modello industriale , il grande porto pubblico in crisi, l'uscita sanguinosa dagli “anni di piombo”, del terrorismo, che non finivano mai e avevano lacerato una generazione intera. Le ideologie, che erano oramai in crisi, ma mantenevano una contrapposizione forte dei partiti nella città e nella Regione, che avevano spesso governi contrapposti, con partiti ancora ben armati l'uno con l'altro: il Pci del quasi 43 per cento che cambiava Genova con i suoi alleati di un Psi in mutazione verso il craxismo, la Dc del suo fondatore e leader storico, Paolo Emilio Taviani, in discesa dopo avere perso Tursi, ma ancora dominante a Roma.

Il disagio sociale del quale la droga era la componente nuova e inarrestabile, e diventata ultra pubblica da quel giorno in cui la polizia aveva scoperto sotto una tenda allestita sul Turchino un gruppo di ragazzi che ne facevano un uso collettivo, incominciava a rosicchiare la comunità, soprattutto nelle periferie e in quel ventre molle che era il centro storico di allora, svuotato di abitanti, cadente, in attesa dei suoi progetti di recupero.

Chi lottava contro la droga che incominciava ad essere allora soprattutto eroina, le siringhe, il laccio , i buchi, i ragazzi che ogni giorno trovavamo o in condizioni disperate dopo l'overdose o morti, in qualche caruggio sperduto, in qualche angolo nascosto, abbandonati come pupazzi rotti da un malessere che faticavamo a capire?

Non passava giorno che una o più morti marcassero il nostro lavoro quotidiano di cronisti. Ed erano pagine intere, storie drammatiche di vite spezzate, di famiglie spesso inconsapevoli, di percorsi rapidi di perdizione, di inchieste degli inquirenti che scoperchiavano il mondo dei trafficanti, che ancora non chiamavamo pusher e dietro il quale scoprivamo lobby mondiali.

C'era prima di tutto don Andrea Gallo, che dopo le sue polemiche durissime con il cardinale principe Giuseppe Siri, il leader di una Chiesa forte ma anche molto conservatrice, contrapposta alle spinte di un cattolicesimo dissidente molto agguerrito, aveva incominciato a organizzare le sue prime comunità contro la droga. Il primo a capire quell'abisso sociale nel quale sempre più ragazzi precipitavano senza alcun paracadute sociale. C'erano psichiatri di buona volontà, le prime avanguardie formate nello spontaneismo volontario  nello scoutismo, nella tradizione cattolica di solidarietà della città aperta a nuove spinte, come Giampaolo Guelfi, come Pietro Iozzia, cresciuti nelle riforme di Basaglia, negli impegni nuovi dei partiti di una sinistra che allora era forte e quasi dominante. Egemonica nella sua visione culturale.

E improvvisamente, ma certo non per lei, arrivò quella signora delicata e gentile, Bianca Bozzo Costa, di grande tradizione famigliare nel mondo della assistenza e della solidarietà, che con amici ed esperti di disagi giovanili e non solo, medici, psicologi, sociologi della prima ora, stava fondando il Ceis.

Ricordo la prima notizia che arrivò in redazione a me giovane capocronista de “IL Secolo”: “Vieni a visitare il centro del Ceis in Salita san Bartolomeo degli Armeni: è una nuova iniziativa molto seria e strutturata, è un metodo moderno per affrontare l'emergenza della droga”.

Mi trovai di fronte un primo piccolo esercito di giovani volontari, di giovani medici, assistenti sociali ( allora si chiamavano così), che si preparavano e su tutto il sorriso fermo e deciso di Bianca che aveva lanciato il Ceis e stava dedicando la sua vita a quell'impresa.

Erano cinquanta anni fa e le parole d'ordine erano già solidarietà, assistenza, condivisione sociale, quelle di oggi, che con un po' di emozione celebriamo in questo anniversario con i suoi figli, soprattutto con Enrico che è il suo successore al Ceis,  con tutta la sua famiglia, con Beppe e con tutti gli altri, quelli che ci sono ora e che ci sono stati in tutti questi anni.

Il Ceis è stato un capolavoro di amore, possiamo dirlo oggi senza temere retorica e esagerazioni. Amore verso il prossimo, che si manifesta con le modulazioni anche emergenziali del soccorso a chi sta male.

Allora la droga era spesso un Sos individuale al quale Bianca e i suoi rispondevano andando in aiuto magari a singoli per lo più adolescenti, oggi quel disagio si è allargato “ a bomba” a tutta la società, comprendendola tutta in una accelerazione sempre più progressiva, in una emergenza che non è più solo la droga nella sua infernale evoluzione non solo chimica. Basta pensare al tema sconfinato dell'accoglienza ai migranti che esplode ogni giorno, al disagio giovanile di oggi, innescato dai social e dalle trasformazioni valoriali della società, perfino agli scossoni recenti della pandemia.

Il metodo del Ceis era diverso da quello degli altri. Questo lo percepimmo subito nella battaglia contro quello strumento di morte. Non aveva i sistemi “duri” alla Muccioli e neppure il comunitarismo accogliente a prescindere di Andrea Gallo.

Era come Bianca, più dolce, basato sui principi spirituali fondati nella dottrina del Vangelo, ma non esclusivi in questo, sorretto da una determinazione incrollabile, quella della sua fondatrice.

Davanti a quelle emergenza e a quella forza con Mario Paternostro avevamo deciso di usare le nostre pagine di cronaca per fondere tutti quegli sforzi in una iniziativa editoriale forte, una rubrica settimanale di una pagina o due pagine di giornale, intitolata “Insieme contro la droga”.

Un po' quello che fa oggi Tiziana Oberti nella sua rubrica su Primocanale.

Era un appuntamento di dibattito, suggerimento, racconto di storie, supporti di pareri, al quale partecipavano tutti i protagonisti di quella lotta, con noi cronisti a cercare di fare da megafoni.

Non si può dimenticare in quelle riunioni la presenza forte, spesso la più equilibrata di tutti, di Bianca, l'irruenza di don Andrea, i pareri tecnici-medici di Guelfi e di Iozzia e dei tanti che venivano a darci una mano.

Oggi che ricordiamo il Ceis, non può che essere sottolineato come quella strada impervia, fatta di tanti dolori, di tante morti giovani e disperate, di famiglie che piangono ancora, ma anche di tanta generosità, si sia allargata nel soccorso di oggi, che fronteggia quelle emergenze così più complessive in un mondo tanto diverso. Ma dove la stella di Bianca brilla ancora.

Grazie Bianca.

Ricordo che qualche anno fa ci raccontavano che quelle vibrazioni sotto Manin dipendevano dalla realizzazione di uno o due nuovi tunnel ferroviari, operazione che avrebbe consentito l’utilizzo di veloci “treni di quartiere” tra Nervi e Pontedecimo. Insomma salivi a Brignole e in pochi minuti scendevi a Certosa. Poi il metro finalmente fino all’ospedale di San Martino. Poi una funivia che partendo dalla stazione di Sestri Ponente saliva alle piste di sci di Erzelli dove avremmo trovato un super-ospedale da far invidia al San Raffaele. Infine, se non mi confondo in mezzo a tutte queste favole del passato, una serie di tapis roulants piazzati uno qui e uno là, uno anche tra il Waterfront e via Venti. Tutto ciò con un serissimo obiettivo: decongestionare il centro città.

Che, effettivamente, è proprio congestionato. Questo è il termine corretto. Perché Genova non è ingolfata come Roma o altre grandi città italiane, a causa delle troppe auto. Ma da una orribile “qualità di traffico”. Insomma, le auto la mattina attraversano il centro e vabbè. Il guaio è che si fermano non nei parcheggi, ma in doppia fila. Eppure gli autosilos generalmente non sono tutti a tappo, ma costano assai. Avete presente il breve tratto stradale tra Piccapietra e piazza Dante? Teoricamente avrebbe quasi tre corsie, che invece a causa di queste soste pasticciate si riducono a una quando va bene. Con l’aggravante della sosta dei furgoni, problema che se non verrà seriamente affrontato anche, logicamente, salvaguardando il sacrosanto lavoro di chi deve consegnare pacchi, pacchetti e pacconi in questa epoca di “tutto portato a casa appassionatamente” , renderà il centro impraticabile con la conseguenza di una forte irritazione dei commercianti.

Ho citato il caso Piccapietra-Ceccardi-Dante, ma penso che ognuno potrebbe segnalarne un altro vicino alla sua abitazione, (via Roma con le auto in sosta continua è davvero diventata brutta) non solo nel centro-centro, ma in ogni quartiere. In Circonvallazione a monte, per esempio le auto sono parcheggiate di punta, con la parte anteriore a bloccare completamente il marciapiede e quella posteriore a invadere la corsia di marcia. Risultato: la strada ha uno spazio effettivo di transito limitatissimo e pericoloso quando tra un’auto e un’altra spunta un attraversamento pedonale di sera oscurato e i pedoni non sanno dove camminare. E i bus stentano a fare le curve a gomito.

Persino in corso Italia fa sorridere la pista ciclabile soprattutto da San Giuliano alla Foce (quella tutelata verso mare è splendida) perennemente occupata o da auto/furgoni in sosta o utilizzata da moto e scooter come una corsia a loro riservata e lo stesso discorso vale lungo il Bisagno dove, lo avrete notato, la pista ciclabile tutta curve, segue l’andamento delle auto posteggiate sotto gli alberi.

Dunque l’unica soluzione, almeno per il centro, è avere il coraggio di togliere auto e furgoni, cioè di pedonalizzare laddove si può. Come fu fatto in via San Vincenzo, nel Quadrilatero e ultimo atto forte di Beppe Pericu in via San Lorenzo. Problema difficilissimo oggi, me ne rendo conto, ma urgente. Oppure dovremo rassegnarci a soffocare, annegare dentro fumi, gas e arrotamenti. Si parla di tutto e di più, ma le pedonalizzazioni annunciate tanto tempo fa sono state imbalsamate.

Vivremo prigionieri di questo “traffico malato”, dentro un “disordine urbano” perenne senza la soluzione di poter andare a piedi tranquilli e di vivere realmente una splendida città anche all’ aperto. E non mi parlate di abbattere la Sopraelevata!

In questi giorni si festeggia il centocinquantesimo anniversario della nascita di quel genio di Guglielmo Marconi. Il 25 aprile del 1874 nasceva a Bologna un uomo che ha fatto la storia con il suo estro e la sua intelligenza. A lui si deve l'invenzione della telegrafia senza fili attraverso le onde radio, che gli valse il premio Nobel per la fisica nel 1909.

Guglielmo sin da ragazzo trascorreva intere giornate nella stanza dei Bachi, nella soffitta di Villa Griffone, alle porte di Bologna, a trafficare con fili di rame, metalli e circuiti. Fu lì che costruì i primi rudimentali apparecchi per la trasmissione e la ricezione delle onde elettromagnetiche, che posizionava a una distanza sempre maggiore all’interno della villa per inviare il segnale ogni volta un po’ più lontano.

Proprio in quella villa il famoso esperimento del “colpo di fucile”, sparato dal fratello per avvisarlo di aver ricevuto il segnale inviato dalla soffitta oltre la Collina dei Cappuccini. La trasmissione di segnali a distanza per via elettromagnetica funzionava. Così iniziò la sua missione di aumentare sempre più la distanza. Giorni e notti di esperimenti e prove molte delle quali in Liguria dove trascorse tanti anni.

Nel Porto di Genova, alle 11.03 del 26 marzo 1930. Marconi a bordo della sua nave Elettra fu protagonista di un momento storico nel progresso del mondo. Gli bastò premere un pulsante dalla sua nave ancorata a due passi dalla Lanterna per inviare impulsi nell'etere in modo che a 22.000 km di distanza, le luci di Sidney si accendessero. Hello Australia» si sentì. È Guglielmo Marconi, «speaking on board the yacht, Elettra, at Genoa, Italy».

Guglielmo Marconi soggiornò a lungo a Santa Margherita, nella cui baia venne ormeggiata tra il 1931 e il 1936 la nave Elettra. Ancora oggi nell’Hotel Miramare si trova la suite dedicata a Guglielmo Marconi: la camera 105 dove soggiornò qui nel 1933 mentre progettava la trasmissione del primo segnale radiotelegrafico e radiotelefonico della storia proprio dalla terrazza dell’albergo. 

A Sestri Levante c'è Torre Marconi dove il premio Nobel condusse numerosi dei suoi esperimenti tra il 1932 e il 1934. Il 30 luglio 1934, Guglielmo Marconi alla presenza di tecnici, ufficiali della Marina Italiana e Inglese e di numerosi rappresentanti della stampa, coronò con successo i suoi esperimenti sulla navigazione cieca, proprio nel attraverso il radiofaro installato sulla torre,

Marconi passò diverso tempo anche a Montallegro, sulle alture di Rapallo dove aveva posto un ripetitore, attraverso il quale eseguiva i suoi ultimi esperimenti, 9 mesi prima di morire. L' 11 e il 12 novembre 1936 riuscì infatti una conversazione radiotelefonica a quattro fra l'Elettra ancorata a Santa Margherita Ligure, New York e due aeroplani in volo sulla città americana. Ma da Rapallo ritornò anche a collegarsi con Livorno, la città dove cominciò a dare forma alle sue idee. 
Un personaggio straordinario, un genio costretto a lasciare l’Italia per andare in Inghilterra dove lo capivano di più. Ma quando tornava amava stare in Liguria e non a caso nel Museo Navale della Spezia si trova la chiglia dell’Elettra che per tanti anni è stata la sua casa.