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Prima di iniziare a leggere rispondete a questa semplice domanda (senza usare Google!): in quale anno si è verificata la strage di via Rasella? Se avete risposto correttamente potete anche chiudere questo articolo ma se, com’è del tutto probabile, non ne avete idea vi consiglio di continuare.

Il fatto è tornato da poco al centro dell’attenzione per le parole di Ignazio La Russa: il presidente del Senato, chiacchierando con il direttore di Libero Pietro Senaldi, si è lasciato scappare alcune affermazioni su questo evento storico. “Quelli che vennero uccisi riporto parola per parola non erano biechi nazisti delle SS ma erano una banda musicale di semi pensionati alto atesini”. La Russa elabora poi un concetto più generale, imbeccato da Senaldi: quell’attentato fu un errore, è lo sostanza, perché non colpì un vero reggimento militare e di fatto scatenò la rappresaglia tedesca delle Fosse Ardeatine. Questo secondo punto è stato più volte oggetto di dibattito nel Paese: i detrattori dell’attentato hanno speso sostenuto, infatti, che l’esecuzione di dieci italiani per ogni tedesco ucciso fosse una pratica standardizzata delle SS e che quindi l'attentato si sarebbe dovuto evitare proprio per non incorrere nella barbara ritorsione.

Costretti a riavvolgere il nastro della storia dobbiamo tornare, tanto ormai la risposta l’avete data, al 23 marzo del 1944. Siamo nella ‘Roma città aperta’ descritta da Roberto Rossellini: la capitale non è dotata di mezzi difensivi od offensivi così da farle risparmiare i bombardamenti alleati; i tedeschi occupano la città incuranti del suo status e le tensioni con i partigiani italiani sono all’ordine del giorno. In questo contesto un gruppo di giovani che aderiscono a un Gap, cioè a un gruppo di azione patriottica di ispirazione comunista, ordiscono diversi attentati, tra cui quello celeberrimo, per alcuni famigerato, di via Rasella.

Questo non è un saggio storico, quindi vi risparmio i dettagli dell’azione partigiana: vorrei solo brevemente confutare le affermazioni del presidente La Russa che, semplicemente, non corrispondono al vero.

  • Quelli che vennero uccisi non erano biechi nazisti”: il Polizei Regiment Bozen (tradotto, reggimento di polizia Bolzano) era un reparto di polizia militare, in seguito inserito nei ranghi delle SS, composto da coscritti altoatesini e comandati da ufficiali tedeschi.
  • Erano una banda musicale”: non lo erano affatto. Erano, appunto, un reggimento di polizia armato fino ai denti, al punto che il giorno dell’attentato di via Rasella le bombe a mano inserite nei loro cinturoni contribuirono ad aggravarne il bilancio. L’idea che fossero una banda nasce dal fatto che, per ordine del loro comando, mentre marciavano in formazione per le vie di Roma intonavano canzoni naziste.
  • Erano semi pensionati”: il più anziano aveva 43 anni. 
  • Via Rasella fu un errore perché si sapeva che i tedeschi avrebbero messo in atto una rappresaglia”: questa è un’accusa infondata poiché nella sola città di Roma furono molti gli attentati a soldati nazisti e fascisti messi in atto da partigiani italiani e mai fu ordita una rappresaglia per vendicarli. Nel dicembre del 1943, a tre mesi dall’attentato di via Rasella, la sola formazione gappista formata da Carla Capponi, il suo fidanzato Rosario Bentivegna, il futuro matematico Mario Fiorentini e Lucia Ottobrini aveva ucciso almeno 16 soldati tedeschi in tre distinti attentati. Mai era stata organizzata alcuna vendetta nazista.

Non ho altro aggiungere. Devo però ancora giustificare l’incipit di questo articolo che contiene la domanda da maestrino sulla data dell’attentato di via Rasella: ho scelto di cominciare così perché sono convinto che a pochissimi di voi interessino davvero questi fatti. Ai politici di oggi, ricordo che siamo nel 2023, chiediamo pensioni più generose, una sanità che funzioni, bollette meno care. Ci piacerebbe anche muoverci liberamente sulle autostrade senza volare giù dai ponti e pagare meno la benzina dello champagne. A loro non chiediamo di arrampicarsi a ritroso nella storia per riscriverla, vogliamo solo che facciano il loro lavoro.

Ogni tempo ha i suoi problemi, i suoi fatti e i suoi simboli. Guelfi e ghibellini, con buona pace di fiorentini e senesi, non esistono più. In Francia non ci sono più gli ugonotti e in Persia non ci sono più Ciro, né Dario, né Serse. Anzi, non c’è più nemmeno la Persia. I fascisti non esistono più e i comunisti nemmeno (anche l’avvocato Lombardi della Spezia, che pure dice di esserlo, in realtà non lo è): ci sono i comunisti in Cina forse, quelli che fanno i miliardi a pacchi, e a Cuba, ma Hasta siempre comandante è ormai solo una canzone che profuma di sigari e rum.

Lasciate perdere le belinate e tornate a lavorare: ho pagato 500 Euro di luce il mese scorso!

C'è l'abbacchio a scottadito della cucina romana, c'è l'agnello al forno pugliese, oppure di quello con piselli e uova della tradizione napoletana. E poi ancora le costolette d'agnello impanate al forno oppure fritte e l'agnello con i carciofi. A Genova e in tutta la Liguria ecco la coratella "bianco e nero" (giànco e néigro in dialetto): le frattaglie di agnello.
Regione che vai usanza che trovi anche per quanto riguarda uno dei piatti di Pasqua per eccellenza.
E anche quest'anno, puntuali ecco gli inviti degli animalisti: "Separati dalla madre a pochi giorni di vita, stipati in camion in condizioni terribili, gli agnelli affrontano lunghi viaggi della morte per arrivare ai macelli dove, terrorizzati dall'odore del sangue e dalle urla dei compagni, vengono immobilizzati e legati, appesi per le zampe anteriori e pesati, storditi con una scarica di corrente elettrica e sgozzati". 

Benché il dato sia in calo, sono ancora tanti gli ovini che ogni anno vengono macellati in prossimità della Pasqua: la cifra è superiore ai 2 milioni di individui secondo i dati Istat. 

Aldilà quindi della scelta strettamente personale di mangiare o meno carne animale, la questione della mattanza degli animali ci dovrebbe in qualche modo toccare. 

Il dibattito agnello si o agnello no prosegue da anni e anni. Ma chissà se continuerà in futuro considerato che ora si dibatte sulla carne sintetica, coltivata o artificiale che dir si voglia, un alimento creato grazie alla coltivazione in vitro di cellule staminali. È carne a tutti gli effetti ma non prevede l'allevamento di un intero animale e nemmeno di un processo di macellazione quindi risulta essere cruelty free, cioè ottenuta senza sofferenza animale. Da poche cellule e in poche settimane si puo' ottenere la stessa quantità di carne che altrimenti impiegherebbe almeno un anno e mezzo.

Il Governo proprio pochi giorni fa ha approvato in via definitiva  un disegno di legge che vieta la produzione e commercializzazione di alimenti e mangimi sintetici: per ora è così, più avanti si vedrà.

Il consumo di carne, ormai è assodato, ha un impatto negativo sul clima e sul Pianeta che non possiamo ignorare. L’allevamento di animali destinati all’alimentazione fa crescere l’accumulo di gas serra nell’atmosfera e la crescente domanda di carne proveniente dai Paesi in via di sviluppo rischia di aumentare esponenzialmente questo fenomeno.
L'introduzione della carne sintetica potrebbe portare benefici in questo senso.
Ma attenzione: è altrettanto utile e necessario sostenere anche la sopravvivenza di migliaia di pastori. Già oggi è a rischio un mestiere ricco di tradizione molto duro che garantisce la salvaguardia di ben 38 razze a vantaggio della biodiversità e che si prende cura di circa 6 milioni di pecore da Nord a Sud della Penisola. 
Il settore delle carni genera in Italia un valore economico dell’ordine dei 30 miliardi di euro all’anno, rispetto ai circa 180 dell’intero settore alimentare e ai 1.500 del PIL nazionale. Facile immaginare cosa potrebbe accadere se dovesse fallire.

E allora come la mettiamo? Agnello sì o agnello no? E poi ancora carne sintetica si oppure no? Dubbi, perplessità e dibattiti infiniti ci accompagneranno ancora per tanti anni. Buona Pasqua intanto...

 

 

Il 12 giugno 2014 non è finita soltanto una certa idea di Sampdoria, peraltro accantonata molto prima. Quel giorno, viene meno anche un aspetto fondamentale del rapporto storico tra Genova e il calcio. Da quella data, con i blucerchiati finiti nelle mani di un romano, entrambe le squadre della nostra città hanno proprietari non solo “foresti”, ma che hanno nel Genoa o nella Sampdoria il solo legame con Genova. L’ultimo presidente rossoblù radicato in città è Gianni Scerni, un gentiluomo uscito di scena ventitré anni fa a vantaggio prima del veneziano Dalla Costa, poi dell’irpino Preziosi, ora di un fondo statunitense basato in Florida.

Nessuno, a Genova, tra chi potrebbe, sembra più volersi occupare di calcio in un modo economicamente più impegnativo di andare allo stadio pagando il biglietto. Eppure a Genova la passione per il calcio non manca: se vivete in un palazzo con cinquanta abitanti, cinque vostri condomini sono abbonati allo stadio. Eppure a Genova i soldi non mancano: lo confermano gli indicatori statistici economici e la storia stessa delle dinastie del capitalismo familiare, più numerose qui che altrove ma refrattarie a entrare (o restare) nel calcio.

Paura del pubblico? Sì e no. La gioia dell’esaltazione nei momenti belli può dare assuefazione, compensando le contumelie degli inevitabili rovesci propri dell'umana avventura. Proprio in queste ore a Napoli contestano de Laurentiis, che prese la squadra in C una quindicina di anni fa e oggi ha stravinto lo scudetto ancor prima di Natale.

Paura di rovinarsi? L’unico che si è rovinato per il calcio, nella Genova calcistica moderna, è stato proprio uno che qui non ci era nato, venendoci solo per comprare e gestire una squadra, di fatto a buttare inutilmente i soldi fatti da imprenditore. Era il già citato Dalla Costa.

Sembra scomparsa la voglia di osare, forse quella di restituire qualcosa alla comunità di appartenenza dove si è fatta fortuna. Eppure il calcio può essere anche redditizio, altrove come anche a Genova.

Se parliamo di Preziosi e di Ferrero, non parliamo certo di filantropi e nemmeno di autolesionisti. Alla luce di come e quanto a lungo il Joker abbia difeso e il Viperetta difenda la posizione, difficile così pensare che codesti arrocchi siano dovuti a una insana voglia di buttare il denaro dalla finestra. Se davvero nel calcio ci si rimette, perché ostinarsi a continuare a perderci, anziché liberarsi dell’onere a vantaggio del primo che passa? Qualcuno, coerentemente, peraltro lo ha fatto davvero.

Se guardiamo Genova, non c’è all’orizzonte un Mantovani o uno Spinelli: ovvero un “prima generazione” che su intraprendenza e talento costruisce una fortuna economica. C’è semmai un panorama di storie dinastiche ormai di lungo corso, quasi tutte nella direzione che dalla logica del rischio d’impresa conduce nel tempo e nelle generazioni a quella della comoda rendita di posizione.

Si arriva così al paradosso della città italiana che più di tutte, lo dicono i numeri, ama il calcio e che però non trova al proprio interno, e probabilmente non troverà per molto tempo ancora, personaggi desiderosi, e in grado di farlo, di mettersi alla guida di una comunità particolare, quale quella che si raccoglie attorno a una bandiera sportiva.

Sul Genoa che compie 130 anni sventola così il vessillo a stelle e strisce. Sulla Sampdoria, i nomi dei possibili successori a una situazione oscura e disastrosa arrivano - ancora - da Roma, sia pure stavolta dal mondo della finanza di rito londinese o papalino, o dal Triveneto. Oppure da ancor più lontano, nello stesso contesto di concretezza delle Mille e Una Notte, nel senso del tempo di vana quanto messianica attesa. In una sarabanda di commercialisti veneti, avvocati e giudici delegati romani, dirigenti d’azienda orvietani con fama di “tagliatori di teste”, magistrati inquirenti calabresi, fino all’apoteosi di una persona giuridica basata sull’Isola di Jersey, uno scoglio di 113 kmq nel Canale della Manica nei pressi della Normandia ma soggetto alla Corona britannica, e regolata in parte dalla legge della Repubblica di San Marino. Desola chiedersi che cosa c’entri tutto questo con Genova, i genovesi, la stessa Sampdoria.

La data del 31 marzo 2023 è una data storica per gli Infermieri italiani perché grazie al Decreto Legge n. 34, che ridisegna e anticipa quella che sarà la sanità del governo Meloni, sono stati superati il vincolo di esclusività e il cumulo di impieghi. Da oggi quindi agli Infermieri è riconosciuto il diritto a svolgere la libera professione così da mettere al servizio del cittadino tutte le competenze, capacità e opportunità di assistenza che sono patrimonio professionale di ogni infermiere.

La Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche accoglie con soddisfazione le misure approvate dal Consiglio dei Ministri in materia sanitaria, inserite nel cosiddetto Dl Energia. In particolare, era da tempo auspicata l’abolizione strutturale del vincolo di esclusività per le professioni sanitarie, che consentirà agli infermieri dipendenti di esercitare la libera professione senza restrizioni di orario. Un primo passo per aumentare le ore di assistenza sul territorio, anche in considerazione dell’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

Anche per i cittadini una grande opportunità….si avrà la libertà e il diritto di non dover essere obbligati a recarsi nelle strutture sanitarie per trovare le giuste risposte ai bisogni di assistenza ma poter ricevere al proprio domicilio le cure e l’assistenza da parte di infermieri specialisti. La cura delle lesioni cutanee, l’assistenza alla persona diabetica, con insufficienza respiratoria, portatore di stomia e molto altro ancora… Diventa quindi realtà la possibilità per gli Infermieri di svolgere attività libero professionale anche presso strutture diverse da quella di appartenenza al di fuori dell’orario di servizio: occorreranno pochi e semplici passaggi che vanno dall’apertura della partita IVA alla richiesta di autorizzazione all’amministrazione di appartenenza.

La portata storica di questo provvedimento di legge non deve però offuscare un altro importante dato che riguarda gli Infermieri: la carenza di personale nelle nostre strutture sanitarie. In Italia l’OCSE certifica una carenza di Infermieri pari a 65.000 unità di cui circa 1.200 in Liguria. E altro dato allarmante è la previsione da qui alla fine dell’anno 2027 il pensionamento di almeno 27.000 infermieri dal nostro sistema sanitario.

Il D.L. n. 34 contiene altre importanti misure per gli Infermieri: sul fronte della violenza viene accolta con soddisfazione l’intenzione di inasprire le pene per gli aggressori con la procedibilità d’ufficio anche in assenza di denuncia da parte dell’interessato, con pene che possono arrivare anche a sette anni di reclusione.
Altra importante notizia è l’incremento della tariffa oraria delle prestazioni aggiuntive nei servizi di emergenza-urgenza, provvedimento atteso e speriamo anche veloce e rapido nel riconoscimento dell’indennità di pronto soccorso, arginando le fughe di personale e rendendo più attrattiva un’area decisamente in sofferenza, anche se non l’unica, del nostro SSN.

 

*Carmelo Gagliano, presidente Ordine professioni infermieristiche Genova 

"Finché non procederà ad una profonda e radicale revisione della pubblica amministrazione, l'Italia potrà fare tutte le riforme possibili, ma non migliorerà". All'epoca stavo al Secolo XIX e queste parole, nel corso di una intervista, me le disse il professore genovese Victor Uckmar, uno dei migliori fiscalisti e tributaristi che l'Italia abbia mai avuto. Si trattò di una vera e propria lezione, con la spiegazione del perché gran parte dei mali nazionali dipendessero da una struttura che ormai faceva acqua da tutte le parti. Da allora sono trascorsi oltre venti anni e, se possibile, le condizioni sono peggiorate.

Nel frattempo ci è venuta pure l'idea che tutti i dipendenti pubblici fossero dei fannulloni e che i risparmi si dovessero fare anche lì. Così dagli di forbice, con sindaci che hanno accampato l'assurdo merito di aver tagliato e tagliato e tagliato gli organici dei Comuni. Risultato? Secondo la Cgia di Mestre la "malaburocrazia", frutto anche, se non principalmente, del cattivo funzionamento della macchina pubblica, ci costa oltre 11 punti di Pil all'anno. Malcontati, sono 225 miliardi di euro, più del doppio dell'evasione fiscale stimata ogni dodici mesi.

Tutte queste cose mi sono venute in mente leggendo e ascoltando in questi giorni le mille polemiche sugli affannosi ritardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ora, dire che è colpa del governo di Giorgia Meloni, in sella da sei mesi, è solo frutto del furore di parte. Riconoscendogli la necessaria onestà intellettuale, credo che l'ex presidente Mario Draghi lo abbia detto nella sua recentissima visita al Quirinale, che ha preceduto il vertice fra Sergio Mattarella e Meloni stessa.

Di più. Il "piddino" Paolo Genitloni, che di questa Repubblica è stato ministro e premier e dunque sa come stanno le cose, nella sua veste di Commissario europeo per l'economia osserva: "Abbiamo già approvato la revisione per Germania, Finlandia e Lussemburgo. È vero che i piani di Spagna, Portogallo e Italia sono più impegnativi, ma io ho fiducia che ce la faremo".

In discussione non sembra esserci la tranche di finanziamenti previsti per fine anno, bensì quelli al 2026: secondo il ministro Raffaele Fitto, un esercizio di realismo impone di dire che molti di quei progetti non potranno essere realizzati. "È matematico", rileva Fitto. E i numeri sono lì a parlare chiaro: finora è stato speso il 6 per cento dei finanziamenti ottenuti e solo l'1 per cento dei progetti è stato completato. Inoltre, il 65 per cento dei progetti passa dai Comuni e il 60 per cento di questi da amministrazioni molto piccole, persino sotto i 5000 abitanti. Mancano ingegneri, funzionari, impiegati. Manca gente.

Ecco perché ascoltando Giovanni Toti, il governatore ligure, ho avuto la salutare sensazione del buon senso. Dice Toti, in soldoni: vanno coinvolte di più le Regioni, soprattutto nelle cabine di regia dei lavori, perché esse possono adeguatamente sostenere i Comuni nel loro impegno. Cioè le Regioni ci possono mettere, dove serve, il personale necessario. E ove ci fosse una carenza di progetti, non è neppure campata per aria, sempre Toti dixit, l'idea di far spendere il denaro che può arrivare dall'Europa a chi è in grado di farlo. La Liguria, per esempio.

Maledetti tagli vien da dire. Perché con le strutture pubbliche ridotte al lumicino si è pensato bene, in questi decenni, di ridurre la sanità, i trasporti e quant'altro fosse in odore di finanziamento da parte dello Stato. Affidando ai privati, invece, cespiti pubblici da cui ricavare moltissimo: le autostrade, tanto per dirne una.

Ora, se è vero che nessuno ci obbliga a fare le spese previste dal Pnrr, è anche vero che si tratta di una formidabile occasione. Complessivamente sono quasi 200 miliardi di euro che l'Unione europea ci ha promesso attraverso il Next Generation Eu. Ma non è denaro gratis. In gran parte, anzi, è un debito la cui ultima rata la pagherà un diciottenne che oggi non è ancora nato.

Ecco perché su tutto si staglia la lezione di Uckmar. Per realizzare i cantieri del Pnrr si usino pure le scorciatoie di buon senso comune che si troveranno, sia nella messa a punto dei progetti sia nella previsione dei tempi. Ma se vogliamo che le responsabilità per il futuro non siano disattese esiste una sola via maestra: la vera riforma della pubblica amministrazione.