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La sua storia nella nuova puntata di "Ti ricordi"
4 minuti e 25 secondi di lettura
di Franco Manzitti

Quanto lo abbiamo inseguito anche noi, allora giovani cronisti del terrorismo, negli “anni di piombo”, tra l’inizio dei Settanta e la metà degli Ottanta, in una Genova così diversa! Quanto quel nome ci affascinava perché lo cercavamo nelle rivelazioni riservate di qualche fonte “segreta” del nostro lavoro, un maresciallo dei carabinieri, un poliziotto dell’Antiterrorismo o dell’Ufficio Politico, agli ordini dell’indimenticabile Giovanni Finazzo, un cancelliere della Procura della Repubblica, che allora i giudici avevano la bocca stracucita con noi, poveri cronisti…..
Leonardo Bertulazzi, eccolo finalmente pescato un mese e mezzo fa dall’altra parte del mondo, anzi nel mondo alla fine del mondo, nell’Argentina così descritta da papa Francesco. E ora vicino all’estradizione e , fatto clamoroso, a un nuovo processo in Italia, dopo le condanne subite “allora”, per la prima volta nella storia giudiziaria di quei terroristi della stella a cinque punte, riprocessato decenni dopo…..
Ha settanta anni questo latitante genovese introvabile per 50 anni, scomparso come nel nulla quando l’Italia e Genova erano sotto attacco di attentati, sequestri, omicidi, gambizzazioni, rapine come quelle alle casse dell’ospedale di San Martino, sotto lo scacco del sequestro dell’uomo politico più importante di allora, il democristiano Aldo Moro.
Bertulazzi era un genovese di adozione, arrivato da bambino dal Veneto con la famiglia , il padre maresciallo dei carabinieri, che destino!, e la madre casalinga. Era diventato presto un militante dell’estrema sinistra in quel brodo bollente dei primi anni Settanta, tra scuola, Università, via Balbi, San Martino, i cortei, il postsessantotto, quel rigurgito forte, che mescolava i ragazzi ribelli ai primi moti della lotta armata, al passaggio rapido dalla militanza politica alla clandestinità tra buoni e cattivi maestri.
Era un militante a Lotta continua, la formazione che ha attirato tanti ragazzi e tante ragazze in quegli anni, insieme a Potere Operaio.
Era uno studente che veniva dal Magistero e poi aveva tentato l’Università, prima a Medicina e poi a Lettere, cioè Balbi, la fucina per molti che stavano sul confine tra l’impegno politico estremo e le formazioni della lotta armata , le Brigate Rosse, nate a Chiavari sotto la regia di Renato Curcio, studente dell’Università di Trento, di Franceschini, ex Pci emiliano, di Mara Cagol, la futura “eroina rossa” per la sua morte violenta in una sparatoria con i carabinieri alla Cascina Spiotta dove i militari stavano liberando l’imprenditore Vallarino Gancia.
Era amico di De Muro Fulvia Miglietta che con l sarebbero diventati insieme e senza saperlo l’uno dell’altro, brigatisti clandestini, inghiottiti dalla latitanza, dalla compartimentazione, così si chiamava il sistema di schieramento delle colonne Br.
De Muro, un garaventino, del giro di Antonio Fanciullo, un altro ragazzo border line del terrorismo, appunto tra la Garaventa, scuola dura di “correzione” per ragazzi difficili, dove insegnava anche don Gallo e le operazioni di assistenza e si solidarietà come Villa Ines e Villa Perla, comunità di recupero dove si impegnavano in tanti volontari, dai cattolici magari formati nello scoutismo cattolico, come Andrea Carlevaro e Sandro Baracicco e quelli che poi, invece, avrebbero fatto della lotta armata la loro religione.
Bertulazzi viveva a Prà, alto, spilungone, si distingueva perché nei comizi, nei cortei era quello con il megafono che urlava di più. Poi la Lotta armata e la clandestinità lo avevano inghiottito.
Scomparso come tanti di quel gruppo, non certo tutti, ma molti. E poi per noi che cacciavamo le notizie su quel mondo di mezzo che un po’ appariva un po scompariva negli attentati, nei sequestri, nelle azioni dei brigatisti e dall’altra parte nei cortei, nelle assemblee di fuoco era diventato come un nome mitico, sussurrato quasi di nascosto dagli inquirenti, che non davano la caccia alle notizie, ma proprio a loro, sconosciuti o quasi e soprattutto “imprendibili”, come nel titolo del bellissimo libro di Andrea Casazza, genovese giornalista che meglio di tutti ha raccontato quella storia della colonna genovese, che aveva inghiottito il Bertulazzi.
Un nome mitico, perché lo inseguivamo senza sapere neppure che azioni aveva compiuto e lo avremmo scoperto molto dopo, quando il muro si era rotto con i pentiti che raccontavano, facevano nomi e legavano i nomi alle azioni terroristiche.
E così scoprimmo che Bertulazzi era stato uno dei sei brigatisti che nel gennaio del 1978 aveva rapito nella spianata di Castelletto l’ingegnera navale dei Costa Piero, della grande famiglia, detenuto nel carcere del popolo di via Pomposa sulle alture per 81 giorni, ottenendo dalla famiglia Costa un riscatto di un miliardo e mezzo. I soldi per organizzare il sequestro Moro e finanziare le colonne brigatiste in mezza Italia.
Abbiamo raccontato con Mario Paternostro nella trasmissione “Ti ricordi?” quel sequestro e mai più immaginavamo che quella ricostruzione avrebbe poi coinciso con la cattura e la futura estradizione di Bertulazzi. E ora diventerà non cronaca del passato, ma cronaca di oggi il nuovo processo, che questo uomo misterioso, già pluricondannato, potrebbe subire a Genova dove torna dopo decenni.
Ecco la ragione del ricordo non solo del sequestro Costa, ma ora di tutta quella storia di Leonardo Bertulazzi, che ritorna attualità, legata a un tempo rimosso, che le nuove generazioni non conoscono e neppure immaginano. Oggi che tutto è cambiato.

 

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