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La Giunta di Ascom Confcommercio Genova dopo la scomparsa del presidente Paolo Odone ha deciso di affidare al vice presidente vicario Alessandro Cavo la presidenza. Una scelta prevedibile e prevista, una scelta all'insegna della continuità come era nell'ordine delle cose.

Cavo, 46 anni, di Voltaggio, imprenditore di quinta generazione nel ramo dolciario e gestore di un locale storico d'Italia, ha vissuto per tanti anni al fianco di Odone. Oggi tocca a lui raccoglierne l'eredità e portare avanti quei progetti iniziati e non ancora finiti. 
"Turismo e infrastrutture le mie sfide più grandi". Già turismo e infrastrutture proprio i cavalli di battaglia di Odone, per cui si era battuto con entusiasmo fino alla fine. Il suo impegno negli ultimi anni era rivolto anche e soprattutto allo sviluppo del Terzo valico e al quadruplicamento della Tortona - Milano che riteneva, giustamente, fondamentale. "La gente di Milano deve venire a vivere a Genova - ripeteva allo sfinimento - il giorno che le due città saranno collegate nella maniera migliore per noi sarà un trionfo".

Solo Msc nel 2023 porterà nella nostra città oltre un milione di turisti per un indotto che supera i 70 milioni di euro. Chi scende a Genova compra la focaccia , ma anche souvenir, prodotti gastronomici e visita i musei per una media di 50 euro a persona. Un patrimonio inestimabile che va salvaguardato e fatto fruttare al massimo.

I numeri premiano il capoluogo libero che spesso fa registrare hotel pieni anche fuori stagione al punto che qualcuno paventa la possibilità di introdurre il numero chiuso, idea che non piace nella maniera più assoluta al sindaco Bucci. "Noi vogliamo che i turisti vengano a Genova: non vorrei che andasse in giro l'informazione che noi non vogliamo i turisti. Noi abbiamo un turismo tipico, che unisce al turismo classico, l'enogastronomia e la cultura. Vogliamo un turismo in cui tutti possono avere la propria esperienza, perché tutti devono essere contenti e non lo possono essere se trovano le porte chiuse".

Genova è cambiata molto rispetto al passato quando era conosciuta soprattutto da chi arrivava qui per imbarcarsi per le vacanze. L'Acquario ha poi fatto da traino e oggi è scelta da turisti di tutto il mondo proprio come meta di vacanze.
Genova è sicuramente una città più viva e più accogliente. Oggi trovare un bar o un negozio aperto in un giorno festivo è un'impresa difficile ma non più impossibile. Dovrebbe diventare la normalità. Se poi fosse anche facilmente raggiungibile diventerebbe sicuramente una delle città più visitate d'Italia. Ce la può fare. Buon lavoro Alessandro.

GENOVA - "What's happening? The police killed someone?", "Cosa è successo? La polizia ha ucciso qualcuno?". È la domanda di una giovane donna americana che verso le 20.30 del 25 aprile si è fermata accanto a me, in salita sant'Agata, a una decina di metri dal telo bianco che copriva un cadavere in via Polleri.

Andava a fare la spesa e tutto di lei gridava America. Dalle infradito ai piedi, nonostante fossimo nel bel mezzo della città, ai capelli bagnati che, se solo la vedesse mia nonna le urlerebbe di tutto, fino all'accento americano che farebbe rabbrividire ogni cittadino d'oltremanica.

La sua voce squillante ha interrotto i cronisti, intenti a ricostruire quello che era appena successo: l'omicidio di Manuel di Palo, 38 anni, ancora disteso per la strada sotto alle macchine fotografiche della polizia scientifica. Circondato da due volanti e da un manipolo di agenti, per chi non ha mai assistito all'after math di un omicidio, il primo sopralluogo delle forze dell'ordine potrebbe sembrare molte cose.

"No, non è stata la polizia", le ho risposto stranita. Tornando a casa, ci ripensavo. Come poteva essere che a vedere quella scena, il suo primo pensiero fosse che ad uccidere un giovane in mezzo alla strada fosse stata la polizia? Non sto dicendo che in Italia determinate cose non succedano, anzi. E spesso, in casi del genere, le pene elargite lasciano l'amaro in bocca.

Ma io non vivo con la paura di essere uccisa se entro per sbaglio con l'auto nel vialetto di casa del vicino, o se sbuco - che poi vai a vedere in che senso - da un corridoio durante una perlustrazione della polizia in un palazzo di Brooklyn. Eppure questi sono solo gli ultimi due casi più recenti dalle cronache statunitensi.

Non ci penso neanche, e quando vedo i Carabinieri con la mitraglietta ai posti di blocco, ancora rimango con gli occhi sgranati.

Che poi la storia degli abusi della polizia in Italia è antica come le istituzioni e come in tutto il resto del mondo. A farne le spese sono quasi sempre le persone più deboli, le classi sociali più povere. I casi ci sono e non sono neanche pochi. Eppure.

"It doesn't happen in Italy", l'ho sentita dire mentre se ne andava con il viso corrucciato. "It does", ti dirò. Ma non così tanto da diventare una paura concreta nella testa delle persone. Se stai attraversando le strisce pedonali il tuo timore è che qualche pazzo alla guida non ti veda e ti travolga. Se vedo la polizia, il mio timore non è quello di essere ammazzata. In un paese civile come gli Stati Uniti invece è così. È una paura reale.

Dalla tragedia di via Polleri, il secondo crimine dall'inizio del 2023 a Genova avvenuto con una pistola e l'incontro con l'americana esportata nel quartiere del Carmine, non posso che pensare alla nostra fortuna. Alla fortuna di vivere in un paese in cui sì, le tragedie succedono, ma si può vivere sapendo di non rischiare di morire con 10 pallottole nel corpo solo perchè siamo scesi dall'auto al momento sbagliato. Alla fortuna di convivere con paure normali, come quella che al posto di blocco, al massimo, mi tolgano qualche punto della patente. 

 

L'area ex Ilva è di Società per Cornigliano ed è stata data in concessione all'azienda siderurgica in commissariamento, la quale l'ha ceduta temporaneamente ad Acciaierie d'Italia. La spiegazione l'ha fornita il sindaco di Genova Marco Bucci, rispondendo alla capa dell'ex Ilva, che, intervistata dal Secolo XIX, aveva osservato: "Non daremo neppure un millimetro alla città". Nella sua replica, Bucci ha compiuto pure una doverosa chiosa: "Non è roba loro".

E qui sta il punto. Inspiegabilmente, o forse molto spiegabilmente, tutti coloro che ricevono in concessione un bene pubblico sembrano diventarne i padroni. O, almeno, si atteggiano a tali. L'ex Ilva non è nuova a simili comportamenti. Ricordo quando Emilio Riva, che non è più tra noi, ad una azienda genovese che gli chiedeva un po' di aree, rispose con arroganza: "Piuttosto ci faccio dei parcheggi!". Non cito l'impresa che voleva spazio perché non so se vuole riaprire la polemica con una persona scomparsa. Ma la questione è rimasta esattamente la stessa.

Per carità: se Acciaierie d'Italia vuole tutti gli spazi perché ritiene  di tornare agli antichi fasti, o almeno a quell'accordo di programma secondo cui dovrebbe occupare 2.200 persone con 700 milioni di investimento, nessuno fiata. Ma servono i fatti. Di parole un po' tutti, in questa storia, ne hanno pronunciate sin troppe.

Dunque, Morselli dovrebbe semplicemente dire: non diamo neanche un millimetro alla città, perché in quelle aree ci facciamo questo e quest'altro, sulla base di un cronoprogramma  che prevede queste tappe. Se ciò Morselli non è in grado di affermarlo, con le necessarie garanzie, be' allora resta difficile non stare con Bucci. Il quale, tuttavia, deve a sua volta spiegarci con esattezza che cosa Tursi ci voglia fare con gli spazi eventualmente riconquistati.

Eh sì, perché vale per tutti il fatto che se pezzi di patrimonio pubblico vengono affidati a delle persone e/o aziende non per questo mutano status: i proprietari restiamo tutti noi! Avrebbe dovuto ricordarlo Autostrade per l'Italia, che si è fatta crollare il ponte Morandi, provocando 43 morti, e ci obbliga a odissee infinite a causa di lavori mai fatti e che adesso bisogna realizzare tutto d'un colpo.

Dovrebbero ricordarlo anche i balneari, che stanno tenendo in scacco un intero Paese nei confronti dell'Ue: benissimo l'indennizzo degli investimenti compiuti, ma proprio non riesco a capire perché uno Stato dovrebbe rinunciare alla possibilità di fare degli incassi mettendo all'asta dei beni propri.

Ho fatto tre esempi, i più eclatanti. Ma altri se ne potrebbero fare. Il paradosso è che la cosa più normale non avviene perché i governi del più diverso colore politico, titolari pro tempore della proprietà, si comportano in modo, diciamo così, "strano". E cioè. Vogliono riprendersi le autostrade, che sono loro? Pagano fior di miliardi agli azionisti concessionari, nello specifico in primis ai Benetton. Sui balneari, invece, neanche ci provano: chissà quale forza hanno costoro, elettorale e no. Comunque sia, la realtà è che finora nessuno ha recepito la direttiva europea mettendo all'asta i litorali. Anche a costo, vedremo fino a quando, di scornarsi con Bruxelles.

L'amara conclusione è una: i concessionari si comportano come se i beni pubblici fossero "roba loro". Ma la politica avvalora questi atteggiamenti, non di rado anch'essa trattando questi cespiti come "roba sua". Tutti dimentichi che, invece, è banalmente roba nostra.

Nella mia la disordinata e articolata vita scolastica, fondamentale per la mia crescita e per il mio inconsapevole riscatto di ragazzo arrivato dal sud, determinanti sono stati alcuni insegnanti, perle rare, purtroppo; veri  maestri di vita capaci di realizzare la didattica che dovrebbe essere l'obiettivo di tutti coloro che svolgono il mestiere più importante: compensare le deprivazioni sociali, come insegnava don Lorenzo Milani.

Quando si avvicina la data del 25 aprile invece che andare a presidiare i cantieri con i miei coetanei pensionati, giro per lapidi e targhe. Mi spiego: la nostra città è fortunatamente ricca di targhe che ne ricordano in sintesi storia, storie e personaggi. Spesso si tratta di elenchi di nomi, partigiani, martiri, nati nel quartiere o nel paese dove la targa è stata posta.

Scoprirete così che la stragrande maggioranza dei partigiani, vittime di eccidi e rappresaglie o di scontri con il nemico nazi-fascista, erano giovani, anzi, giovanissimi: ventenni, addirittura diciottenni.

E se approfondite l’argomento,  magari utilizzando il bellissimo Memoriale “Noi Partigiani” di Gad Lerner e Laura Gnocchi leggerete le loro storie. Mi piace ricordare le parole di Gianfranco Pagliarulo presidente nazionale dell’Anpi quando il lavoro fu presentato. In questi giorni possono essere parole molto utili e non retoriche.

“Questo è uno scrigno che contiene e conserva le parole e i volti di tante partigiane e partigiani. Va maneggiato con la cura ed il rispetto che si deve alle madri e ai padri che hanno generato un Paese altro, diverso e opposto a quello fascista: l’Italia – come è scritto sulla Costituzione – del lavoro e della pace. Tutti molto anziani, naturalmente. Immaginiamoli da giovani, da ragazzi, alcuni da ragazzini, quando, spesso in modo diverso l’uno dall’altro, ma uniti tutti dalla volontà di liberazione e di libertà, affrontarono un nemico spietato ed infinitamente più forte, e lo sconfissero. È il loro dono per questo ci sono cari . Non è un libro di storia, perché evoca un sentimento di gratitudine e ci presenta una galleria di ricordi che collega il passato al presente, che ci fa umani fra gli umani. Ragazzi di allora che parlano ai ragazzi di oggi, come se dicessero che sì, si può e si deve cambiare, mettendosi in gioco. Un messaggio che propone una tensione alla cittadinanza attiva, un impegno che accomuna la generazione della radio a quella del web.”.

Tornando ai miei giri per lapidi, mi sono imbattuto, durante un sopralluogo per la preparazione del prossimo docufilm su Primocanale su Genova, su una targa curiosa.
Siamo ad Aggio in Valbisagno, poco sopra San Siro di Struppa. Un luogo incantato il cui nome, ho letto, deriverebbe da “aglio” in genovese “aggiu”, l’aglio selvatico molto comune nella zona.
Siamo nella valle del rio Torbido, con le case disposte una sull’altra, a gradini sulle rocce. Di qua i viaggiatori passavano per andare a Creto, provenienti dalla città o dal Levante attraverso Sant’Eusebio e Bavari.
In piazza, vicino alla chiesa c’è questa targa posta dal Comune di Genova: “A ricordo di don Nicola Ricchini, parroco di Aggio, che nel 1944, per aver salvato la sua gente dalle atrocità della guerra fu rinchiuso dai nazifascisti nel campo di sterminio di Flossemburg dove venne umiliato e più volte torturato. A fine guerra gli alleati lo estrassero, ormai morente, da una fossa comune e, dopo intense cure, riuscirono a riportarlo in vita restituendolo alla sua missione di pace”.
Approfondendo si scopre una storia curiosa. Ci aiuta un leader storico dei partigiani, Paolo Emilio Taviani con i suoi diari.

Tutto comincia con uno spaventoso boato ne pieno della notte. I partigiani avevano fatto saltare in aria un deposito di tritolo dei tedeschi. Il parroco don Ricchini aveva preavvisati dell’esplosione gli abitanti, facendo suonare le campane della chiesa in modo che tutti potessero mettersi al sicuro.
Racconta Taviani: “Seguirono i fragori dell’eco, nei meandri del vallone che scende da Creto. Tutta la gente di Aggio, gli abitanti di sempre e gli sfollati di città, ne fu svegliata di soprassalto. Ma nessuno uscì di casa. Ognuno capì che eran stati i partigiani. La mattina seguente appresero che era saltato il ponte. E le comunicazioni con la città erano interrotte. Alle dieci arrivarono i repubblichini. La gente si rinchiuse nelle case, ma i repubblichini vi entrarono ugualmente a domandare, inquisire, frugare, perquisire. Uno scemo disse che il parroco era amico dei partigiani, che li aveva visti frequentare la canonica. I repubblichini incattiviti si sfogarono sul parroco. Lo presero, lo picchiarono e se ne andarono con lui, senza che la madre neppure potesse dargli la biancheria di ricambio. Tutte queste cose erano avvenute a settembre. Trascorso l’inverno rabberciarono il ponte. E i partigiani lo scassarono altre due volte. A marzo giunse la notizia dalla Germania che il parroco era morto.”.

Il cardinale di Genova, Pietro Boetto, poiché il parroco era stato dato ormai per morto, decise che ci volevano funerali solenni per ricordare questo prete generoso e coraggioso che non aveva esitato a sacrificarsi per salvare la sua parrocchia. Funerali cui parteciparono  i vertici della chiesa genovese.
Ancora dai Diari di Taviani: ““E c’era tutta la gente di Aggio, gli abitanti di sempre e gli sfollati di città. I rintocchi delle campane risuonarono a lutto nella valle del Bisagno. Trascorse la primavera, venne la Liberazione, arrivò l’estate. Sul finire di giugno un nuovo scampanio richiamò su Aggio l’attenzione della Valle. E tornarono alla pieve l’arciprete di San Siro, i  parroci di San Cosimo, di San Martino, di San Pietro di Fontanegli, dagli arcipreti di Bavari e di San Giacomo di Molassana. Tornò anche il rettore del Santuario delle Tre Fontane. Suonavano a festa le campane. Perché, di buon mattino, il parroco era ricomparso a piedi sulla strada del ponte scassato; e la gente gli era andata incontro, l’aveva seguito fin sul sagrato, dove la madre, uscendo dalla canonica lo vide e svenì: stette male per tre giorni. Ma intanto il sacrestano si era già attaccato alle corde delle campane. Per fare sapere a tutti che il parroco era risuscitato”.
Don Ricchini era nato a Bolzaneto nel 1910 e nel 1933 era stato ordinato sacerdote e nominato parroco di Aggio pochi anni dopo nel 1938. Fu reintegrato nell’incarico e restò nel suo paese fino alla morte avvenuta nel 1986.

 

(Crediti foto: Pietre della memoria)