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di Luigi Leone

Chiudere gli stabilimenti dell’ex Ilva, compreso quello di Genova Cornigliano, costa quasi il triplo che procedere alla riconversione, a cominciare dalla decarbonizzazione di Taranto: oltre 11 miliardi di euro contro 4 miliardi e rotti. Non lo affermo io, né alcune istituzioni, né i sindacati, né uno che passa per la strada e decide di cimentarsi con l’argomento. No, lo dice Franco Bernabè, che di Acciaerie d’Italia, come davvero si chiama l’azienda ex Italsider, è stato il presidente, all’epoca in cui un pezzo di pubblico, Invitalia, faceva società con Arcelor Mittal. Lo sostiene, dunque, uno che sa di che cosa si parla.

Poi le cose sono andate come a tutti noto, con il disimpegno del privato, l’affannosa e per adesso infruttuosa ricerca di un altro partner, le manifestazioni e persino gli scontri di questi giorni per cercare di salvare il salvabile. Uno spiraglio si è aperto, grazie alla tenacia del governatore Marco Bucci, che ha parlato, parla e parlerà con il “suo” governo, e della sindaca di Genova Silvia Salis, che nella circostanza non fa certo questioni di orticello politico. Ma non casualmente continua a chiedere l’intervento diretto di Palazzo Chigi, ovvero della premier Giorgia Meloni.

Sembra un po’ il gioco del poliziotto buono e del cattivo quello messo in scena da Bucci e Salis. Sino a febbraio hanno ottenuto che l’ex Ilva vada avanti, però in questi mesi di tregua una soluzione andrà trovata. E allora continuano a frullarmi nella testa quelle cifre snocciolate da Bernabè, ospite di “Otto e mezzo” su La7. Io non ci credo che il governo non lo sappia, anzi non credo che ne sia all’oscuro lo stesso ministro del Made in Italy (sic!) Adolfo Urso. E allora perché?

Alla domanda mi sono dato questa risposta: perché l’ex Ilva è un maledettissimo problema con il quale nessuno vuole avere a che fare. Perché in ballo non ci sono questioni economiche e occupazionali che riguardano solo l’Italia, bensì un insieme di elementi che incidono sui nostri rapporti con il resto d’Europa e del mondo.

In ogni caso, considerando che nessun privato vuol farsi carico di tutti quegli oltre 4 miliardi, la cosa più logica sarebbe passare attraverso una nazionalizzazione che coinvolga Cassa depositi o una sua controllata pubblica. Lasciamo perdere i rapporti con Bruxelles – qualcuno mi dovrebbe spiegare perché la Francia può impiegare proprio sull’acciaio risorse pubbliche e noi no – però è certo che servirebbe l’aiuto di tutti.

Finché parliamo di forze politiche, sindacati e istituzioni locali nulla questio, pur se non tutti sono dell’avviso, come dimostrano i precedenti. Ma altra cosa è constatare che un convitato di pietra sull’ex Ilva resta la magistratura. Il rapporto fra politica e toghe non è dei migliori e se parliamo poi del governo, con in ballo il referendum di primavera prossima sulla modifica costituzionale che riguarda proprio la giustizia, peggio mi sento. Eppure, nonostante si sia molto dibattuto negli anni, il tema rimane quello.

Ora, so che sto per scrivere una cosa “anomala”, però: se gli scudi penali del passato non sono andati a buon fine, forse è meglio sotterrare l’ascia di guerra e chiedere alle toghe che cosa si può fare e che cosa no, in forza di quali leggi ed eventualmente pronti, in Parlamento, anche a cambiarle le norme che possono mettersi di traverso al salvataggio dell’ex Ilva. Questo è possibile? Sì. Questo è probabile? No.

Ciò spiega ampiamente le ragioni dei pessimisti. Inoltre, rende plasticamente visibile un dato: o intorno alla più grande azienda siderurgica d’Europa ci si mettono tutti coloro, ma proprio tutti, che hanno una parte in causa, oppure hai voglia che Bucci, Salis, parlamentari, lavoratori e cittadini genovesi si sbattano. La brutta fine sarà ineluttabile.

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