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"Bravi dai, ma venite gratis": cantano così i Cugini della Corte, duo genovese di cugini in arte e nella vita, in una delle loro ultime canzoni-parodia dal titolo "Cinghiali-disco". Una frase che fa riflettere e che - purtroppo - descrive bene una certa parte del mondo del lavoro di oggi. E no, non sto parlando di eventi con volontari che tanto agitano l'opposizione comunale a Genova: l'essere volontario significa di fatto offrirsi di propria sponte un determinato ruolo in una manifestazione. Sto parlando proprio di lavoro, lavoro necessario per tutti quelli che cercano di riempire un curriculum con esperienze oltre che titoli. Lavoro che non è una scelta, ma una necessità. Un musicista emergente che "dai noi ci mettiamo il palco, ma non abbiamo budget: ti offriamo visibilità". Un dj ancora poco rinomato: "ti affittiamo la consolle, poi magari ti chiamiamo a suonare al prossimo evento se va bene la serata". Un moderatore ad un evento: "abbiamo una serie di ospiti di prestigio, è una bella occasione di  networking. Però, no, non abbiamo previsto un rimborso spese". Un amico fotografo che "dai, che ti costa. Ce lo fai questo regalo? Altrimenti chiediamo alla sorella di Luca, ma non viene lo stesso risultato..." (e forse se non viene lo stesso risultato è proprio lì che bisognerebbe capire la differenza tra volontariato e lavoro, tra hobby e professionalità, tra gratis e retribuito).

Chiariamo subito. Io sono una grande fan della gavetta. Si dice sempre oggi che i giovani vogliono tutto subito, che appena usciti dall'università pretendono contratti e stipendi, che non hanno più voglia di fare sacrifici. A parte che io tutti questi giovani da 'indeterminato e subito' non li conosco e, anzi, anche dalla trasmissione de Il Programma Politico di Primocanale di lunedì 16 ottobre, mi sembra di vedere tanti ragazzi con sogni e voglia di rimboccarsi le maniche per riuscire a realizzarli, bisogna anche dire che dopo un diploma, una laurea triennale, un tirocinio, una magistrale, uno stage, un master e ci mettiamo anche un dottorato, a quasi 30 anni ci starebbe anche sognare un po' di stabilità. Ma io sostengo appieno l'importanza di fare la gavetta, fin da subito. Ho avuto la fortuna di fare tre stage diversi durante il liceo (ne chiesi uno extra io), oggi alternanza scuola-lavoro, che mi hanno permesso di chiarirmi le idee su cosa volessi fare da grande. A 17 anni ho iniziato a scrivere - oltre che per il giornalino della scuola con cui collaboravo già da un po' - con diverse testate online a titolo gratuito, pur di fare esperienze diverse e di cimentarmi in argomenti sempre nuovi. Ho fatto le mie prime esperienze sul campo per imparare senza chiedere nulla in cambio, poi il tirocinio di oltre 6 mesi. Passo dopo passo, conquista dopo conquista sono arrivata dove sono oggi, anche grazie a chi mi ha dato fiducia prima, supporto durante e riconoscimento oggi. E ancora adesso, giorno dopo giorno, posso imparare ad essere la professionista che sarò. 

Ma là fuori non è così per tutti. Secondo i sondaggi Primocanale-Tecné il 61% dei genovesi pensa che un under 30 per trovare un buon lavoro debba andare fuori Genova. E molti dei nostri utenti nei commenti hanno aggiunto "fuori dall'Italia". Eppure in città, secondo i dati riferiti ogni anno dall'assessorato al lavoro del Comune, da Regione Liguria e dalle aziende, c'è sempre un divario tra posti di lavoro offerti e figure che possano ricoprirli. Questo perché in molti scelgono strade di formazione e di vita differenti. Non immaginando poi a cosa si va incontro. La percezione infatti dei cittadini è che si debba cambiare città perché nei settori più saturi di professionisti (ma non solo quelli) i giovani possono aspirare a praticantati a 500 euro al mese (o anche meno). Pratiche dove se sei fortunato impari il mestiere aprendo e chiudendo l'ufficio, se lo sei meno rischi di finire a fare compiti di segreteria. Pratiche che - nota bene - sono tappe obbligatorie per conseguire esami di Stato e il titolo di esercitare la professione. Pratiche che molto spesso sono fini a se stesse, senza sbocchi ulteriori una volta terminate. Com'era il proverbio? Morto un praticante, se ne fa un altro? No, non era proprio così. Ma il principio che oggi in molti adottano sembra essere questo. Architetti, avvocati, commercialisti. Gli annunci di lavoro recitano AAA cercasi giovane anche senza esperienza, ma non ti raccontano mai le prospettive una volta che tu quell'esperienza l'avrai acquisita. 

E allora che senso ha fare la gavetta? In un mondo del lavoro sempre più incerto e sempre più precario, che senso ha sacrificare weekend per approfondire un argomento, fermarsi oltre l'orario per correggere un compito che è stato assegnato, documentarsi ogni giorno per fare meglio quello dopo? Tanto domani quel praticante verrà sostituito con uno più giovane e meno esperto. E la gavetta rinizia da capo, di nuovo. Con tutti che dicono: "Eh io alla tua età...". "Eh ma voi avete una fortuna, potete fare i master". Ma poi non ti dicono che sulla soglia dei 30 anni o hai fatto esperienze lavorative o per il mercato del lavoro non hai appeal. Sono i giovani a non 'aver voglia di fare' o è il mercato del lavoro che 'ha fatto sì di non averne voglia'?

Viva la gavetta, ma fino ad un certo punto. Viva la gavetta che ti permette di crescere, di diventare un professionista e di lavorare. Viva la gavetta che permette ai giovani di avere spazio, anche in una città come Genova che può offrire a tutti un buon lavoro, se tutto il mondo del lavoro premiasse i bravi con più che una pacca sulla spalla. 

Questa foto rappresenta quello che sei caro Carlo, il più grande talent scout al mondo di piloti di moto. Questo ragazzo ha vinto in Australia la Moto 2 con condizioni meteo proibitive: Toni Arbolino di 23 anni che tu segui da manager da 3 anni.
Inutile ricordare quanti ne hai scoperti, sei il migliore Carletto, e le polemiche sulle tue frasi eccessive sulle donne nulla c’entrano con le tue qualità professionali ma posso dirlo anche della tua correttezza nell’amicizia e la generosità che hai sempre dimostrato e che hai dentro di te sia nella tua vita professionale che con chi ti conosce per davvero.

Ti auguro ancora mille successi Carletto e di trovare nuovi campioni come trovasti Valentino Rossi.
Per il resto, da amico, ti consiglio di stare molto più attento alle frasi che dici sul sesso femminile: la società di oggi condanna pesantemente qualsiasi considerazione agli uomini e posso trovarlo giusto anche se non esiste proprio più alcuna pariteticità di trattamento nei casi opposti quando sono le donne che si comportano in modo indegno contro un uomo e lo dico per esperienza personale e per tanto casi che purtroppo conosco.
Parla di moto e se vuoi di Genoa e scopri piloti dove sei il numero 1 al mondo e nessuno te lo può negare!

 

Il 21 ottobre del 1923 undici Comuni si sono uniti e hanno dato vita alla città di Imperia. Da allora sono trascorsi cento anni e per la ricorrenza il capoluogo della riviera di ponente ha preparato dodici mesi di festeggiamenti, che sono iniziati sabato scorso. Noi di Primocanale, nel nostro piccolo, anche grazie al contributo di Fondazione Carige, abbiamo provato a raccontare la storia di Imperia e delle sue genti, attraverso una produzione che ripercorre alcuni dei momenti più significativi.

Ma qui desidero soffermarmi sulla lezione che viene da quel 21 ottobre di un secolo fa. La nascita di Imperia, infatti, è la dimostrazione che delle piccole municipalità possono proficuamente mettersi insieme, creandone una più grande. E soprattutto risolvendo, in questo modo, molti problemi che invece le angosciano.

Oggi ci sono Comuni, in Liguria come nel resto d’Italia, che faticano maledettamente ad andare avanti: hanno bilanci irrisori epperò tremendamente deficitari nella loro irrisorietà, non possono contare su un segretario comunale a tempo pieno, devono spesso rinunciare ad asili e scuole non solo per mancanza della necessaria popolazione di bambini e adolescenti.

Via di questo passo, si potrebbero citare a decine i problemi che le piccole municipalità non possono affrontare quando si parla di trasporti, rifornimenti idrici, raccolta e smaltimento della spazzatura. Eppure, nonostante la mole dei problemi irrisolti e irrisolvibili, ognuno preferisce rimanere ostaggio di essi e della propria piccolezza. 

Perché? Mi è capitato di chiedermelo molto spesso. Proprio in provincia di Imperia sono almeno tre i casi che gridano vendetta. Mi riferisco a Diano Marina, San Bartolomeo al Mare e Cervo Ligure. Sono realtà che nella percezione delle persone, soprattutto quelle che vengono da fuori (e i turisti sono migliaia ogni anno), non esistono. Lungo la via Aurelia soltanto i cartelloni stradali indicano che si lascia un posto per entrare nell’altro: non c’è alcuna discontinuità. Eppure lo status dei Comuni rimane quello da sempre.

Credo si tratti di un altro peccato della cattiva politica. Rimanendo al caso citato, tre Comuni significano tre sindaci, tre giunte municipali, tre consigli comunali. Una moltiplicazione delle poltrone che altrimenti non ci sarebbe. Ed anche un potere da preservare, visto che tre Comuni significano, tanto per dire, pure tre piani edilizi, quindi tre modi diversi di rilasciare le autorizzazioni. 

Si potrebbe andare avanti a lungo, rafforzando il concetto di base: quella che abbiamo di fronte è una politica che non pensa ai cittadini, e non parlo populisticamente dei risparmi possibili riducendo il numero degli incarichi, bensì alla propria sopravvivenza. Oppure, nel migliore dei casi, non pensa proprio. Mandando avanti le cose così come sono sempre andate. Comunque, non è la cosa migliore.

Ecco perché la nascita di Imperia, cento anni fa, costituisce un esempio, qualcosa cui guardare al di là della ricorrenza. Proprio nella produzione preparata da Primocanale, il sindaco del capoluogo rivierasco, Claudio Scajola, osserva: “Per una città, un secolo di vita non rappresenta un’età particolarmente elevata. Ma se si sono messe insieme più municipalità per dare vita a quella città, allora è il momento dei bilanci. Quegli undici Comuni che si sono uniti ci hanno rimesso o ci hanno guadagnato? Beh, credo che la domanda abbia una risposta netta: ci hanno certamente guadagnato”. Tanti altri potrebbero farlo in Italia. Invece la politica preferisce raccontarci che piccolo è bello. Purtroppo, non sempre è vero. 

Quante cose ci sono dentro il 2-0 della Sampdoria al Cosenza? Innanzi tutto, tre punti importantissimi per salire qualche gradino in classifica e cominciare a osservare l’orizzonte da una prospettiva meno soffocante. Poi, o forse prima di tutto il resto, lo smantellamento di un tabù che frenava e condizionava: quello delle vittorie a Marassi, che mancavano da sette mesi.

Strettissimamente legata al dato statistico, la possibilità di fare finalmente un regalo ai tifosi, che hanno dato abbondante credito alla Sampdoria del nuovo corso e della salvezza dal fallimento – 18.229 tessere di abbonamento e un affetto costante – ma che finora erano stati ricompensati con soddisfazioni molto risicate.

Dentro questa ritrovata vittoria non si può non leggere un omaggio a Paolo Mantovani – la famiglia sul prato del Ferraris, il sorriso del grande presidente cucito sulle maglie – a 30 anni e pochi giorni dalla sua scomparsa. Ancora: questa vittoria, e questa prestazione, sono uno splendido biglietto da visita per gli ospiti di Radrizzani e Manfredi che hanno osservato la partita dal box presidenziale. E si sa che la Sampdoria, nel piano di rilancio, non può prescindere dall’innesto di forze fresche.

Uno stadio che è un contenitore di tifo all’inglese, quelle maglie particolari e spettacolari, questa vittoria di anema e core non possono lasciare indifferente un interlocutore davvero interessato. Dopodiché, ovviamente, toccherà aspettare se le premesse possono trasformarsi in concreto interesse.

Tornando alle cose di campo, il risultato maturato non può che rappresentare un’iniezione di fiducia per i singoli  e di autostima collettiva. E non si tratta di cliché ma di psicologia sportiva: la convinzione è un parametro che incide sulla prestazione, la fiducia fa osare la giocata che resta autocensurata nei momenti di difficoltà. L’impegno può esserci sempre, metabolizzarlo e trasformarlo in prestazione è l’obiettivo. Finalmente raggiunto.

Non a caso Ronaldo Vieira l’ha spiegata con queste parole: "È quello che volevamo. Avevamo già notato un’energia mentale diversa. Dovevamo solo metterla in pratica e far vedere che ci siamo". Appunto. Infine, ma certamente non ultimo per importanza: questo risultato e questi tre punti allontanano, si spera definitivamente, le ombre dalla panchina di Pirlo, lo sottraggono al contesto risicato del quotidiano, gli concedono di lavorare con serenità. Magari, lo ha sempre fatto, magari non si è mai fatto turbare, ma comunque non è cosa da poco scacciare i fantasmi e tacciare le illazioni.

Il simbolo di questa Sampdoria che torna alla vittoria che mancava dallo scorso 19 marzo è Fabio Borini. Finora criticato eccessivamente e spesso ingiustamente: l’impegno da parte sua non era mai mancato, nemmeno nelle giornate negative, stavolta arrivano due gol, uno su rigore e uno su azione, va in rete per la terza partita consecutiva e lascia sul prato dei rimpianti la splendida girata che, nel recupero del primo tempo, va a cercarsi con tempo d’inserimento perfetto e che si stampa sulla traversa.

Ma è pure la giornata di Stankovic che torna fra i pali e spegne le velleità del Cosenza con due-tre parate impeccabili lasciando la sua porta inviolata: il posto ora è suo, Ravaglia merita il grazie per esserci sempre quando è richiesta la sua presenza in campo ed esserci sempre ai bordi e nello spogliatoio. Pirlo ha sottolineato che davanti a un portiere di 21 anni ha agito c’era una coppia centrale di quarant’anni in  due, 20 e 20. Depaoli ha confermato di essere fondamentale per continuità, corsa, generosità. Verre ha alternato imprecisioni a intuizioni e all’inserimento che ha fruttato il penalty del vantaggio. Vieira ha dato sostanza al centrocampo e Kasami, quando è entrato, ha mostrato parte del suo repertorio di concretezza e mestiere. E si potrebbe continuare, ma non è l’ora delle lodi. E peccato, certamente, per la ricaduta di Pedrola.

In dieci giorni è arrivata prima l’omologa del piano di ristrutturazione, poi la vittoria che mancava. Due momenti chiave per il futuro a breve e a lungo termine, che possono veramente rappresentare le basi per la realizzazione dello slogan di mezza estate: “Ricominciamo”. Da qui, da uno spirito ritrovato e una consapevolezza nuova, da un gruppo unito. Sudtirol, Palermo in casa e trasferta a Modena possono essere le tappe più prossime della nuova Sampdoria.     

Il traffico di Genova è sempre stato abbastanza complicato dal disegno della città: una striscia, lunga e stretta, fitta di salite e discese e curve degne di un valico montano. Oppure vicoli, piazzette. Se poi alle auto si aggiunge una quantità enorme di due ruote, scooter e moto soprattutto e oggi anche monopattini e bici, tutta la faccenda si complica ulteriormente.

Così per i pedoni, attraversare questa città, percorrerla a meno che non ci si trovi nel cuore pedonale del cento storico, è un rischio perenne che aumenta a dismisura nelle strade dritte e lievemente più larghe del normale. Penso a via Venti Settembre, corso Buenos Ayres, corso Italia, ma in particolare a un percorso “dannato” che parte dalla Circonvallazione a monte e, toccata piazza Manin si getta giù per la ripida via Assarotti. Ebbene i viali alberati di Castelletto, curva dopo curva, sono un pericoloso tranello per i pedoni quando questi desiderano attraversarli.

Le strisce stinte appaiono dietro le curve continue, magari occultate da posteggi invadenti (perché le auto un po’ più lunghe debordano abbondantemente dalle righe blu restringendo paurosamente la carreggiata, ma soprattutto nel buio notturno. Addirittura sfido anche un automobilista con la vista perfetta nell’individuazione terrena di un attraversamento pedonale.

In via Assarotti la serie di attraversamenti ormai grigioneri come l’asfalto della strada, appaiono tra le auto in sosta (regolare) e i furgoni in doppia fila, con l’aggravante che la discesa dritta da Manin a Corvetto è un invito a accelerare. Quando magari un bus si ferma davanti a un attraversamento per fare passare un pedone, questi rischia di essere atterrato da una moto che scende e supera il mezzo pubblico. Ahimè in questo tratto di strada gli investimenti di pedoni in fase di attraversamento anche cauto, sono all’ordine del giorno.

Avevo sperato molto nelle strisce illuminate varate alcuni anni fa dall’assessore Balleari. Ma oggi, non so come mai, queste illuminazioni non ci sono o sono smorte.

Un appello dunque: facciamo risplendere le strisce pedonali, illuminiamole a giorno, magari coloriamole di giallo, facciamole brillare in modo che nella notte magari piovosa, si vedano meglio. Questo poiché è logico che non si possano farcire la strada o i viali alberati di semafori più o meno intelligenti.

I dati nazionali sugli incidenti anche gravissimi a pedoni in città sono davvero impressionanti e se ne sono accorti anche i tg pubblici. A Genova, forse, il rischio aumenta proprio per la dimensione delle vie e i saliscendi.
E’ un problema che non va sottovalutato.