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di Doriano Saracino*
Papa Francesco apre la porta santa nel carcere di Rebibbia

Nell’epoca della globalizzazione i gesti e i viaggi comunicano in modo forte i messaggi, e così è stato anche per papa Francesco, la cui prima visita fuori dalla città di Roma è stata Lampedusa, dove ha ricordato i morti nei viaggi della speranza fatti dai migranti per raggiungere l’Europa, mentre l’ultimo luogo visitato il Giovedì Santo, pochi giorni prima di morire è stato il carcere di Regina Coeli, a Roma. Un antico detto afferma che non può dirsi romano chi non sale almeno una volta i tre gradini che portano all’antico carcere posto sotto il Gianicolo: anche in questo possiamo dire che papa Francesco è stato un autentico pontefice romano, come già Giovanni XXIII, primo papa a visitare il carcere non più come re e sovrano dello Stato pontificio, che si presentò ai detenuti dicendo “sono vostro fratello” e poi i suoi successori, da Paolo VI che a Regina Coeli disse “venendo qui, vi guardo con profonda comprensione e grande stima, vi voglio bene, non per sentimento romantico, ma vi amo davvero” fino Giovanni Paolo II che in un altro carcere romano incontrò il suo attentatore, Alì Agca, e quindi Benedetto XVI che per primo si recò anche al carcere minorile di Casal di Marmo.

Per Francesco l’incontro con i detenuti durante le visite pastorali in Italia – ricordiamo Castrovillari, Isernia, San Vittore, Verona, la Giudecca a Venezia - e i viaggi apostolici all’estero – tra questi il carcere di Ciudad Juarez in Messico, il penitenziario femminile di Santiago del Cile ma anche il carcere di Philadelphia negli Stati Uniti - diviene un motivo ricorrente, così come la lavanda dei piedi il giovedì santo in istituti penitenziari minorili, case circondariali e case di reclusione romani e laziali. E come non ricordare che durante la sua visita a Genova, nel maggio 2027, Bergoglio pranzò con oltre cento persone povere al Santuario di N.S. della Guardia, tra le quali vi era una nutrita delegazione di detenuti e detenute in permesso?

Sarebbe da scrivere la storia di questi incontri e di questi gesti, ma qui basta ricordare le parole di papa Francesco quando il 26 dicembre 2024 aprì la Porta Santa del Giubileo nel carcere romano di Rebibbia: “Ho voluto spalancare la Porta, oggi, qui. La prima l’ho aperta a San Pietro, la seconda è vostra. È un bel gesto quello di spalancare, aprire: aprire le porte. Ma più importante è quello che significa: è aprire il cuore. Cuori aperti. E questo fa la fratellanza. I cuori chiusi, quelli duri, non aiutano a vivere. Per questo, la grazia di un Giubileo è spalancare, aprire e, soprattutto, aprire i cuori alla speranza. La speranza non delude (cfr Rm 5,5), mai! Pensate bene a questo. Anche io lo penso, perché nei momenti brutti uno pensa che tutto è finito, che non si risolve niente. Ma la speranza non delude mai.”

Ci sono pochi posti come il carcere per comprendere l’importanza di una porta. E la paura spesso prevale sulla speranza. I detenuti che incontro come garante mi spiegano che fa paura non solo la porta che si chiude dietro di te all’ingresso ma anche quella che si apre per l’uscita. Ed è significativo che una quota importante dei suicidi in carcere avvengano nelle prime settimane di carcerazione ma anche quando questa sta finendo.

Credo che il prossimo papa continuerà a manifestare la sua vicinanza al mondo del carcere, perché questo è il DNA della Chiesa, perché la visita ai carcerati, così come quella ai malati, l’accoglienza agli stranieri, il vestire chi è nudo, dare cibo e acqua ad affamati e assetati. E credo che attraverso ciò, i suoi gesti e le sue parole comunicheranno speranza a tutti, anche a chi vive fuori del carcere ma con il cuore e la testa imprigionata. Siamo tutti noi ancora chiusi nel passato e a partire dal carcere impariamo il valore della speranza, l’importanza della libertà, il significato di un cielo ampio sopra di noi.

Doriano Saracino* - Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale regione Liguria

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