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2 minuti e 44 secondi di lettura
di Mons. Giacomo Martino*
Papa Francesco durante la celebrazione di una messa a Santa Marta

“Ogni migrante che bussa alle nostre porte è un'occasione di incontro con Gesù Cristo.” Con queste parole, Papa Francesco ha più volte invitato la Chiesa a uscire da ogni paura per abbracciare il Vangelo nella sua radicalità. E il Vangelo, al capitolo 25 di Matteo, è chiarissimo: Gesù ci lascia un elenco di persone da amare, non in teoria, ma con gesti concreti. Tra queste, nomina due categorie spesso dimenticate: lo straniero e il carcerato.

“Ero forestiero e mi avete accolto, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. È in queste persone che Cristo continua oggi a bussare alla nostra porta. E la Chiesa, se vuole davvero celebrare l’Eucaristia con cuore puro, non può ignorarli. “Non si può ricevere il Corpo di Cristo se si chiude il cuore al fratello straniero o al detenuto che ci chiede ascolto”, ha detto Papa Francesco.

A Genova, la Diocesi ha voluto con forza richiamare l’attenzione proprio su migranti e detenuti, riconoscendoli come fratelli feriti, come provocazione evangelica e profezia per la Chiesa. E allora, se vogliamo essere fedeli al mandato di Cristo, dobbiamo lasciarci trasformare da questo incontro.

I migranti non sono numeri. “Sono persone con un volto, una storia, un dolore. Nessuno lascia la propria terra per gioco, nessuno mette i propri figli su una barca se non per amore e per disperazione”, ha ricordato il Papa. Accoglierli non significa solo dare un pasto o un letto, ma riconoscere in loro il diritto a essere parte della nostra comunità.

Allo stesso modo, i carcerati non sono colpe da scontare, ma vite da rialzare. “Dio è più grande di ogni nostro peccato, e il carcere deve essere un luogo di riscatto, non di esclusione”. La Chiesa deve stare lì, accanto, anche quando è difficile, anche quando è scomodo. Visitare chi è in carcere non è un atto di pietà, ma un’opera di giustizia evangelica.

“La misura dell’umanità si misura da come trattiamo i più piccoli, i più poveri, i più esclusi”, ha detto ancora Francesco. E se migranti e detenuti restano ai margini delle nostre comunità, delle nostre Messe, delle nostre assemblee, allora stiamo lasciando fuori anche Cristo.

Il futuro della Chiesa dipenderà da quanto saprà lasciarsi convertire da queste presenze. Non basta parlare di accoglienza, bisogna viverla. Non basta commuoversi davanti alle storie di naufragi o carceri sovraffollate, bisogna scegliere da che parte stare.

“La fede autentica è quella che si fa vicina, che sporca le mani, che sa toccare le ferite dell’altro”. Questo è il Vangelo di Matteo 25. Questo è il solco che Papa Francesco ci lascia, come profezia e come compito.

Oggi più che mai, la Chiesa è chiamata a diventare casa per chi non ha casa, voce per chi è dimenticato, braccia per chi non può più abbracciare. Solo così potremo dire di aver incontrato davvero Cristo. Perché “ciò che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

Mons. Giacomo Martino*Coordinatore Ufficio per i Migranti;  Legale Rappresentante Chiesa del SS. Nome di Maria e degli Angeli Custodi; Cappellano Casa Circondariale di Pontedecimo; Delegato regionale e membro di diritto Consiglio Pastorale Nazionale Cappellani dell'Amministrazione Penitenziaria; Delegato regionale per le migrazioni

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