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La musica, il calcio. Due mondi così diversi ma spesso così vicini. Vicinissimi quando uno di fronte all'altro sono seduti due personaggi che hanno fatto la storia. Uno si chiama Gigi Riva, l'altro Fabrizio De André. Succede il 14 settembre del 1969, in casa del cantautore dopo una partita a Genova di un Cagliari che proprio quell’anno avrebbe vinto l’unico, storico scudetto. 

Chi c'era racconta di tanti silenzi. Soprattutto all'inizio. Erano entrambi emozionati, avevano talmente tante cose da dirsi che rimasero a guardarsi per un po', senza dire nulla, accennando solo qualche sorriso.

Poi piano piano le prime parole, i primi discorsi. Eccoli parlare con un bicchiere di whisky in mano della "loro" Sardegna. Riva, nato sulle rive del Lago Maggiore, ci arriva, giovanissimo e proprio all'inizio della sua carriera, ceduto al Cagliari dal Legnano a 19 anni. Sbarca controvoglia, ma invece qui sceglierà di vivere tutta la sua carriera, rifiutando anche ingaggi da capogiro dalle più blasonate squadre del Nord. "Volevo allontanarmi dal mio paese per le troppe disgrazie, in un posto dove altre sciagure non avrebbero potuto raggiungermi. Dopo che persi mio padre, mia sorella e mia madre, decisi che era arrivata l'ora di andare via":

De André invece nell'isola si trasferisce già uomo, con Dori Ghezzi, il sogno di diventare allevatore e una bambina in arrivo. 

E poi eccoli ancora parlare del mare, dei colori, il rosso e il blu, uno del Cagliari, l’altro del Genoa la squadra del cuore di Fabrizio. Riva era un appassionato di De André, gli piaceva più di tutte "Preghiera in Gennaio” che il cantautore scrisse tornando dal funerale dell’amico Luigi Tenco. La ascoltava talmente tante volte che i compagni di squadra quasi non ne potevano più di sentirla. Ed è stata quella preghiera in musica a risuonare nella chiesa di Genova quel gelido 13 gennaio del 1999 durante le esequie. E chissà forse risuonerà anche per quelle di Rombo di Tuono.

Gigi e Fabrizio, due miti con caratteri così simili. Entrambi introversi, entrambi spesso soli, entrambi rivoluzionari. Due orsi “per scelta e per vocazione".

 

 

 

Andatevi a rileggere i post sul Far West dei social dopo Monza-Genoa 1-0 gol di Dany Mota all’83’.

Ora nessuno alzerà la mano a dire: “scusate mi ero sbagliato sul mister”. Non ci sono più padroni di quelle feroci contestazioni della serie “non ci capisce niente, sbaglia i cambi, non ha gioco offensivo e via dicendo”. Ognuno ha il diritto di sostenere ciò che vuole ma, in quel momento stava per esplodere una bomba ad orologeria sotto la coda del Grifone. Così forse si fa un po’ di chiarezza. Li, la società ha dato fiducia al Gila e lui, il tecnico, da quel momento forte di avere il gruppo in mano ha tirato fuori sei partite decisive con 10 punti in tasca frutto di due vittorie e 4 pareggi. Una striscia sulla carta da doppie cinture di sicurezza per non cadere e farsi male. visti gli avversari.

Pari con la Juve, vittoria in esterna con il Sassuolo, 1-1 con l’Inter, stesso risultato a Bologna, poi al Ferraris lo 0-0 col Toro, quindi la vittoria di Salerno, decisiva per il salto in classifica. Sebbene con un Genoa falcidiato dagli infortuni, con Retegui recuperato ma non ancora al massimo sono arrivati 7 gol all’attivo e solo 5 subiti grazie ad uno splendido Martinez su cui in tanti di sono sbagliati, me compreso. Gilardino ha dato una idea tattica ad una squadra che è difficile da battere per tutti. E neanche troppo sullo sfondo c’è stata la partenza di Dragusin non ancora rimpiazzato e un centrocampo che ora aspetta Bohinen pure lui in infermeria per una decina di giorni che vada bene.

Gilardino si è fatto sentire prima di andare a Salerno e c’è stata tensione. Lui, il tecnico, ha parlato di adrenalina e comunque ha fatto bene ad esternare i suoi desiderata che ai tempi del Gasp erano stati etichettati come “mal di pancia”. In fondo tra i due allenatori ci sono molte differenze, ma la personalità è la stessa. Gilardino ora si è preso il Genoa, che va detto bello chiaro, deve fare almeno altri 13 punti per salvarsi e guai a dare per scontato che arrivino facilmente. Ma diciamo che alle 18 e due minuti di domenica dopo il gol della Salerniyana sui social e non solo era già partito il de profundis per Badelj e compagni.

Ecco serve un pizzico di equilibrio in più. Ora la società batta un colpo perché la squadra lo ha già fatto. Se lo merita il Gila e la tifoseria, ma va detto che con qualche accidente in meno la formazione rossoblu è competitiva per l’obiettivo di partenza e forse, quando Blazquez parlava di qualcosa di più di oltre a mettersi tre club dietro, in fondo non straparlava.

È proprio il Gila gli ha dato una mano con i fatti. Aspettando il Lecce a Marassi dove la vittoria manca da un po’, serve mostrare im giusto valore e simpatia per chiudere una stagione chiavetta senza farsi del male da soli.

Adesso è evidente: i sogni cullati dopo il filotto a cavallo fra ottobre e metà dicembre (19 punti in 9 partite: media 2,1), tra Ascoli e Reggiana, vanno riposti nel cassetto. La doccia fredda nel momento del tentativo di salto di qualità – Ricordate? Le prime somme si tireranno dopo la sosta -, quattro partite un punto, hanno emesso un verdetto inequivocabile: la Sampdoria 2023-24 deve pensare a salvarsi possibilmente senza affanni, guardandosi le spalle e mantenendo la razionalità. Il resto verrà, non da solo, sia chiaro: va studiato, programmato e attuato con testa fredda e senso della prospettiva. Se poi il recupero dei molti titolari di qualità ai box consentisse una nuova serie positiva ci si potrebbe togliere qualche soddisfazione. Ma illudersi sarebbe l’errore più grande. E in questo il realismo con cui Matteo Manfredi, nelle poche occasioni in cui ha preso la parola pubblicamente (l’ultima alla serata per Vialli al Carlo Felice) senza mai concedere nulla ai voli pindarici è segno di grande realismo e concretezza.

Ma andiamo per ordine e partiamo dalla fine, cioè dagli ultimi risultati negativi. Sui quali incidono certamente errori individuali e di capacità collettiva di affrontare i momenti-spartiacque in campo, la clamorosa ecatombe di titolari (infortuni e squalifiche) e le decisioni arbitrali che hanno penalizzato la squadra blucerchiata. Andrea Mancini lo ha detto con garbo, certamente non lo stesso con cui il padre si ribellava a certi torti quando indossava la maglia della Sampdoria. «Meritiamo rispetto», ha sottolineato il giovane ds, e sarebbe il minimo, il dovuto: poter giocare ogni partita ad armi pari con gli avversari. Ma così non è. La sensazione, forse di pancia ma insistente, è che le accuse di una certa presunta benevolenza del Palazzo nel salvataggio della Sampdoria si stiano scontando tutte adesso. Non si parla di complotti, ma di un atteggiamento che sembra evidente. Più facile prendere decisioni a cuor leggero (sbagliate, inique) quando di fronte hai una società forzatamente povera politicamente com’è la Sampdoria oggi.

La Sampdoria ha un presidente vero (Manfredi, fate caso, in società lo chiamano tutti così) che non è il presidente e un presidente di nome (Lanna) che non è nelle condizioni di agire da presidente. Il Cda che doveva formalizzare la nomina del primo (Manfredi) è slittato ormai da mesi (prima data orientativa suggerita a suo tempo: fine novembre dell’anno scorso); la nomina al momento è rinviata a data da stabilirsi, così come il closing. Ovvio che, in questa situazione, la caratura della Sampdoria società sia precaria. Ma se questi ritardi potevano non essere compresi fino a qualche tempo fa, ora – con la notizia dell’indagine della Gdf su plusvalenze e false fatture (presunti addebiti riferibili, nel caso, al passato e non alla gestione attuale) – risulta chiaro questo temporeggiare. Il concetto è chiarissimo: tenere ben separato il presente dal passato. Non solo: in società figura ancora come azionista Massimo Ferrero. Ovvio che, in questo momento, chiunque interessato a entrare in società (portando denaro fresco) stia ai margini a osservare gli sviluppi della situazione ed è altrettanto scontato che, in una situazione del genere, la Sampdoria società sia rispettosissima delle regole e non provi in nessun modo a forzare i paletti che ne limitano l’operatività sul mercato.

Dunque, avanti piano. Sperando che possa arrivare almeno un difensore centrare dopo l’interessante Augustin Alvarez e che si possano recuperare alcuni dei giocatori ai margini in questo momento. I fatti sono sotto gli occhi di tutti: quanto sia pesata in termini di equilibrio in campo e personalità la perdita di Borini, assurto al ruolo di leader, e successivamente quella di Esposito, oltre alle altre, è fuori discussione. Qui, naturalmente, serve un’altra attenta indagine interna, senza andare a caccia del capro espiatorio. Ma l’operato del settore di preparazione atletica e di recupero infortunati, oltre a quello sanitario, meritano un approfondimento. Il dato che balza sotto gli occhi in modo più clamoroso è la diaspora degli infortunati, dispersi tra Desenzano, Liverpool e Barcellona per sottoporti a cure riabilitative e recuperi. La sensazione è che non si conoscano o si sottovalutino le professionalità (indubbie) presenti sul territorio.

Insomma, serve analizzare con lucidità il presente, fare le correzioni dovute nei vari settori e andare avanti nel costruire il futuro. Una promozione in serie A non si costruisce né in fretta né in affanno né per caso. Facciamo un esempio: se il Parma, in serie B, può permettersi di far partire dalla panchina uno come Benedyczak si capisce quale sia la differenza di caratura tra una realtà e l’altra. In questo scenario qualcuno ha rievocato il fantasma di Beppe Iachini, l’uomo del miracolo del 2012. Suggestivo pensare alla concretezza dell’uomo col cappellino. Ma Pirlo ha dato un’impronta di gioco a una squadra dei cui problemi di organico abbiamo parlato. Se contro Feralpisalò, Bari, Venezia e Parma è arrivato un solo punticino, il colpevole non è certo lui. Dunque, vista la sbandierata fiducia nei suoi confronti e la collocazione all’interno del progetto, non varrebbe la pena di rinnegare tutto.

Si deve andare avanti, passo passo, e programmare il ritorno in serie A per restarci – auspicabilmente bene – entro il 2026. Il cammino – questo è scontato - è lungo e non facile.

I sostenitori del “no” al terzo mandato dei governatori (e per estensione a quello dei sindaci nelle città con oltre 5.000 abitanti) affermano di pronunciarsi in nome del cambiamento del personale politico. Mi è capitato di ascoltare il presidente di Regione Liguria, Giovanni Toti, ospite di “Tagadà” su La7 e di avergli sentito affermare: “A legislazione vigente, ed anche futura stando alle previsioni, un premier ed un ministro possono rimanere in carica vita natural durante. Perché governatori e sindaci no? Contemporaneamente il Parlamento è pieno più di nominati che di eletti…”.

Agli occhi di tanti, Toti può avere il difetto di essere direttamente interessato all’ipotesi del terzo mandato (non essendo la norma retroattiva, in realtà tecnicamente per lui si tratterebbe del secondo se la Regione Liguria approvasse il vincolo della doppia elezione), ma le sue sono state parole di puro buon senso. Personalmente sono dell’opinione che nel nostro Paese sono troppe le regole che per alcuni valgono e per altri non esistono neanche. C’è, in tutta evidenza, un problema di incoerenza.

Per quanto concerne quella di tipo politico si potrebbero fare esempi infiniti. Il più immediato e più semplice: quando stai all’opposizione dici e fai delle cose che appena arrivi al governo ti devi rimangiare. Sarebbe ben più credibile spiegare semplicemente la verità ai cittadini elettori.

Invece questa sembra proprio una battaglia contro i mulini a vento. I partiti, cioè, continuano a ritenere che la maggioranza degli italiani siano dei cretini ai quali raccontare la qualunque. Poi si stupiscono, i partiti medesimi, se si ingrossa l’esercito degli astensionisti. Ne parlano come di “un problema per la nostra democrazia” nell’immediatezza dell’esito elettorale, poi bellamente se ne infischiano.

I “cretini”, invece, se ne rammentano benissimo. Anche perché ancor più dannosa, considerato l’argomento, è l’incoerenza di tipo economico-industriale-produttivo. Stiamo in Liguria. Dopo dodici anni, e non so quanti governi, il caso ex Ilva è ancora lì, con tutto il gravame degli interrogativi che riguardano il futuro di migliaia di famiglie e di un settore strategico come quello siderurgico. Lo Stato c’entra in quanto azionista: sono state fatte leggine per risolvere alcun problemi contingenti (ad esempio lo scudo penale), però nessuna programmazione e nessun intervento di lungo respiro che metta l’azienda al riparo dal fallimento e la rilanci. Anzi, sarebbe interessante conoscere i patti che i vari governi hanno siglato, salvo poi dimostrarsi inaffidabili.

Il discorso vale per altri casi, come l’Ansaldo energia piuttosto che la Piaggio aero: non c’è stato un governo capace di risolvere le questioni pur sapendo che erano e sono sul tappeto. Peggio. In questi anni durante i quali non si è fatto nulla per il debito pubblico, si è pensato, invece, di mettere a terra norme come quelle sul reddito di cittadinanza o sul superbonus edilizio.

Arrivo a dire che entrambe sono cose buone, pur non pensandola così, però sta di fatto che non potevamo permettercelo. Come non possiamo permetterci un alleggerimento della Legge Fornero sulle pensioni. Eppure c’è chi ci ripete che le cose vanno e andranno diversamente. Appunto: siamo ritenuti dei cretini, noi che in primavera dovremmo andare alle urne, per le amministrative (alcuni) e per le europee (tutti).

Di più. Così incapaci di intendere che il terzo mandato sta diventando un mercato delle vacche. A qualcuno servirebbe per togliersi dai piedi concorrenti sgraditi (Matteo Salvini che vuol lasciare Luca Zaia in Veneto). A qualcun altro, invece, non è per niente utile, perché mira a mettere l’alleato-avversario leghista all’angolo e a prendersi tutte le presidenze regionali possibili (la premier Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia e uno dei suoi vice, Antonio Tajani, per Forza Italia).

In tutto tale caos, mi verrebbe da usare un altro termine, si spacciano queste amenità – in passato non è che il centrosinistra abbia fatto diversamente – con la nobile affermazione che cambiamento farebbe rima con miglioramento.

Ovviamente non è vero, tuttavia si tende ad accreditare questa tesi. Anche all’epoca della Prima Repubblica fu così, riguardo all’inchiesta giudiziaria Mani Pulite: venne ritenuta un lavacro salutare. Ma più di qualcosa non ha funzionato se ci tocca rimpiangere “i puzzoni”.

 

Alcune settimane fa, da osservante ultra settantacinquenne genovese (umarell?), quindi con una spiccata tendenza al lamento perenne, sottolineavo come mi mancano alcuni mezzi di risalita dal centro o dal basso in generale alle alture. Insomma una sensazione di mancanza di nuove funicolari o di nuovi veloci ascensori. Un elogio, logicamente, alla preveggenza di chi nel secolo che fu, progettò per la mobilità della Grande Genova la cremagliera di Granarolo, le funicolari di Zecca-Righi e Sant’Anna, gli ascensori di Montegalletto, Spianata, ponte Monumentale, fino alla moderna risalita di Quezzi. E ne dimentico sicuramente altre.

Mi ha risposto l’ingegnere Giorgio Olcese che, oggi saggio ultranovantenne!, fu da 1979 al 1993 ingegnere capo del Comune di Genova, con una documentatissima lettera che merita di essere resa pubblica. Insegna molte cose, purtroppo nel passato non fatte, a cominciare dalla vera metropolitana. Cioè un metro che non fosse solo una linea, ma una vera rete globale o quasi della città. Però avrebbe dovuto seguire un tracciato diverso. Ecco la storia.

Fui io a prevedere nel mio piano regolatore del 1976-1980 il tracciato della metropolitana e a realizzarla nel tratto da Certosa (chiamai il caro amico Renzo Piano!) al porto antico. Il tracciato completo da Multedo a Sturla prevedeva razionalmente due linee con interscambio a De Ferrari. La prima linea longitudinale seguiva, in centro città, l’asse storico: Zecca/Portello/Corvetto per raccogliere al piede le utenze collinari di

funicolari e ascensori, per proseguire verso Brignole e Levante”.
Ma racconta l’ingegner Olcese che avrebbe dovuto esserci anche una seconda linea, che sempre in piazza De Ferrari doveva interscambiare a sud con le esigenze di Carignano e della Foce e a nord prevedeva una stazione sotterranea, udite udite, “esattamente sotto piazza Manin con ascensore emergente dunque al capolinea dei mezzi di superficie in quota”.


La linea sarebbe andava avanti fino a raccogliere gli abitanti di Staglieno.
Cioè una rete razionale e adatta alla complicata conformazione della città , con una striscia lunga a mare, le vallate (vedi oggi progetto di Skymetro), ma anche la mobilità di chi abita l’area collinare da Ponente a Levante.
Ma gli allora amministratori “nonostante la mia testarda e motivata opposizione, vollero che la linea deviasse lungo l’arco portuale a servizio delle folle affluenti all’Esposizione colombiana genovese”.
Fu così, racconta ancora Olcese, che andò perduta una soluzione urbanistica che avrebbe avuto anche attenzione a chi stava in alto, in cima alle salite ahimè, da Circonvallazione a Carignano con un accesso anche alla Foce (tema di cui oggi molto di discute con la nuova area del Waterfront di Levante).

Le due linee prevedevano stazioni a Principe, non di fronte alla Stazione Marittima, ma a monte sotto salita della Provvidenza con un unico sistema di accesso dalla Stazione ferroviaria, una stazione alla Zecca, la stazione di Corvetto “certo la più complessa assemblando di fatto due stazioni, sarebbe stata collocata sotto piazzale Mazzini limite inferiore della Villetta Di Negro. Con scale e marciapiedi mobili taluna davvero un po’ impegnativa. Sarebbero state raccolte da piazza Corvetto, Portello e funicolare di sant’Anna oltre che Piccapietra, Acquasola, via Roma, ma anche da Mameli, Palestro, Assarotti.”Certamente un progetto originale e innovatore. Insomma, l’ingegner Olcese contestò la deviazione del metro sull’arco portuale.

Poi ecco l’originalissima idea della stazione di Manin.
“La localizzazione sotterranea è chiara, l’emergenza con ascensori libera e comunque è perfettamente razionale. Grazie alla quota costante della Circonvallazione monte (leggi l’andamento storico dell’Acquedotto) è pensabile un servizio rapido e frequente di mezzi di superficie, ivi a capolinea, senza impegno di lontani terminali a Centro/Levante. Dunque uno schema circolatorio di immediata chiarezza che avrebbe liberato, quanto meno, via Assarotti dalla frequenza ripetuta fermata dei mezzi pubblici in risalita, in conflitto con lo scorrimento dei mezzi privati. Nonché. Come è ovvio, immesso immediatamente in rete metropolitana tutte le utenze residenziali della città alta facilmente convergenti su Manin”. Bus circolari in Circonvallazione e niente bus in salita e discesa da via Assarotti.

E qui a Manin avrebbe dovuto esserci un ascensore.
Conclude il ricordo dell’ingegnere capo: “L’attuale unica linea metropolitana, oggettivamente marginale alla città globale resta un forte contributo di collegamento al centro per gli utenti della Valpolcevera. Fatti salvi per il futuro soltanto eventuali , ragionevoli prolungamenti a Ponente e Levante della città”.
Evviva la memoria!