Commenti

2 minuti e 48 secondi di lettura

Alberto Scagni è seminfermo di mente. Lo ha stabilito Elvezio Pirfo, il perito del giudice per le indagini preliminari Paola Faggioni, che ha depositato la sua relazione che verrà discussa il prossimo 3 novembre (leggi qui). I legali Elisa Brigandì e Maurizio Mascia potranno così puntare a uno sconto di pena per l’uomo che, la sera del 1 maggio scorso nel quartiere genovese di Quinto, ha ucciso con 19 coltellate la sorella minore Alice, mamma di un bambino di due anni.

Da anni si discute sull’infermità di pena nei processi penali, ma non è su questo che vogliamo puntare oggi il dito ma piuttosto come sia possibile che nessuno sia riuscito a fermare la mano assassina di Alberto. Perché che fosse "seminfermo di mente" i genitori e la stessa sorella lo sapevano da tempo. E da tempo si erano rivolti ai servizi sociali e alle forze dell’ordine attendendo risposte sempre vaghe (leggi qui). Vedere in ritardo certificata la follia del figlio quando loro l’avevano denunciata proprio per evitare tragedie fa male e suona come una beffa per mamma e papà che ho incontrato nella loro abitazione di Sampierdarena.

Ma chi era Alberto e perché nessuno è riuscito a fermare la sua follia prima di quella maledetta sera di maggio?
Dopo aver ripetuto l’esame di maturità due volte per una crisi epilettica, si iscrive a Scienze Politiche dove però fatica. Così eccolo fare pizzaiolo, il barista e poi in un ufficio, ma viene licenziato: non ha la testa per essere preciso, si dimentica appuntamenti e sbaglia troppe volte. Ha tanto tempo libero durante il giorno. Quando è lucido legge libri di Murakami, i testi sul Giappone, la filosofia orientale. Scrive poesie e ad un certo punto vuole diventare uno scrittore. Si rifugia spesso nella casa di campagna nel tortonese dove spacca legna e dipinge provando anche copiare il suo mito Van Gogh.

Quindi la separazione dalla storica fidanzata e poi il covid. Quando la sua palestra chiude si ritrova ancora più solo e cammina per ore per strada, ovviamente senza mascherina. Non sopporta l’autorità, l’imposizione. Poi si fa liquidare il fondo pensione di 15mila euro donato da genitori e sperpera tutto: donne, alcol e probabilmente droga.

Alza il tiro chiede ai genitori sempre più soldi. Li spaventa, li insulta, li minaccia. Ad un certo punto pensa persino che vogliano escluderlo dall’eredità lasciando tutto alla sorella Alice che invece, dopo essere stata una studentessa modello, sta facendo anche una bella carriera.

Fa bonificare il suo appartamento convinto che qualcuno, chissà per quale motivo, lo possa spiare di nascosto. La famiglia vuole mandarlo dallo psicologo, ma lui non vuole saperne. Partono le richieste di aiuto ai servizi di salute mentale. Il neurologo dice che Alberto è grave e ai genitori racconta che “pensa di essere Van Gogh”.

Quando dopo aver incendiato la porta della nonna, colpevole di non avergli dato soldi chiama indiavolato il padre chiedendogli dove fosse la sorella partono le richiese di auto al 112. “Ma nessuna volante era libera quel giorno, era il primo maggio, un festivo” racconta la mamma. Qualche ora dopo le coltellate, il sangue, la morte.

Ora Alberto è in carcere, i genitori nella loro abitazione di Sampierdarena.  Tristi, distrutti e con due soli obiettivi: sapere che qualcuno pagherà per non aver ascoltato le loro denunce e raccontare, tra qualche anno, alla nipotina che bella persona era la sua mamma.