L’Ilva va nazionalizzata. Non ci sono scappatoie, strade alternative o speranze possibili: se l’Italia vuole mantenere la sua produzione nazionale di acciaio deve smettere di tergiversare e agire.
Avrebbe dovuto farlo, in realtà, 13 anni fa, quando la gip di Taranto Patrizia Todisco estromise, di fatto, la famiglia Riva dal controllo dell’acciaieria: da allora è iniziata la classica, penosa storia all’italiana, fatta di decisioni sbagliate – talvolta assurde – e di una valanga di quattrini pubblici bruciati con più efficienza dell’altoforno.
È difficile dire quanto denaro dello Stato sia finito nei gangli dell’ex Ilva: una stima malcontata ipotizza 13 miliardi, praticamente uno all’anno dal 2012 a oggi.
Oltre alle perdite generate in tutti gli stabilimenti – a Taranto in particolare – vanno aggiunte le casse integrazioni, i prestiti, le garanzie, le risorse per le bonifiche e i continui sussidi alla produzione. Se invece di girarci attorno il governo dell’epoca avesse preso in mano l’azienda, l’avesse bonificata e rilanciata, oggi avremmo un’Ilva in salute e probabilmente già privatizzata.
Invece si è preferito un girotondo tragicomico, iniziato con un lungo commissariamento – e numerosi commissari – fino al subentro di ArcelorMittal: con la multinazionale franco-indiana, con sede in Lussemburgo, è iniziata (siamo ormai al giugno 2017) una storia che, se non ci fosse da piangere, farebbe ridere.
L’azienda promette di dar seguito al Piano Ambientale, predisposto per effetto delle pressioni politiche e delle disposizioni giudiziarie; per farlo, garantendo la continuità produttiva, chiede e ottiene la conferma del cosiddetto “scudo penale”, che rende immuni gli amministratori da contestazioni penali di natura ambientale, nelle more delle operazioni di bonifica.
In pratica Mittal dice: “Siccome i danni ambientali che stiamo provocando per continuare la produzione non sono colpa nostra, pretendiamo che nessuno di noi finisca in galera per questo”. La posizione è ragionevole: lo scudo, del resto, non era stato pensato per ArcelorMittal, ma era in vigore anche prima, quando l’azienda era commissariata; inoltre questa garanzia era parte integrante dell’accordo che lo Stato aveva firmato con i franco-indiani, dunque decisiva.

Tutto bene – o quasi – fino al 3 novembre 2019, quando il governo Conte II decide di abrogare lo scudo penale: il giorno successivo, 4 novembre, ArcelorMittal recede dall’accordo e le acciaierie ripiombano nel caos.
Da allora, e sono passati sei anni, è successo di tutto: Invitalia (cioè lo Stato) entra in società con Mittal (che mantiene la maggioranza) e fonda Acciaierie d’Italia, poi litiga, sale di quote, fino allo stato di insolvenza dichiarato dal tribunale fallimentare di Milano nel febbraio 2024, che porta all’amministrazione straordinaria.
Follie di ogni tipo che non hanno insegnato nulla, se è vero che il governo Meloni sta perseverando in una strada miope e costosa: è in corso una trattativa con il gruppo azero Baku Steel, mentre sullo sfondo permane la seconda offerta degli indiani di Jindal Steel. La speranza è che Babbo Natale esista davvero (del resto siamo nel periodo giusto per scoprirlo) e che non viva a Rovaniemi.
Nel contempo, a Genova, è stata avanzata dal ministro Urso la proposta di installare un forno elettrico, che ha subito scatenato le proteste dei cittadini di Cornigliano: una proposta talmente fuori scala da essere bocciata dal mercato e appoggiata dalla sindaca Salis solo perché anch’ella era certa che non si sarebbe mai portata avanti (lo ha ammesso, candidamente, lei stessa).
Veramente pensiamo che, in questo colossale caos che abbiamo provato a condensare in queste righe (si potrebbe scrivere un libro), la salvezza possa arrivare da un gruppo straniero? Quanto è probabile un nuovo, miliardario contenzioso? Possibile che non si capisca che continuando a fare ciò che si è sempre fatto si otterrà sempre lo stesso risultato (cioè miliardi pubblici buttati)?
È arrivato il momento di dire basta: il governo deve prendere una decisione chiara. O nazionalizza l’Ilva, la finanzia per bonificarla e rilanciarla (e a quel punto la rimette sul mercato), oppure la chiude. In questo secondo caso deve avere il coraggio di dirlo agli operai.
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