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GENOVA - Frammenti di discorsi catturati in un bar, un paio di settimane fa. Due donne, chiaramente insegnanti di scuola elementare, si sfogavano l'una con l'altra riguardo al rapporto che avevano con i genitori dei rispettivi alunni che spesso e volentieri – di fronte alle loro critiche, presumo legittime – prendevano spudoratamente, sempre e comunque, le parti dei figli, criticandoli e attaccandoli aspramente. Un modus operandi che spesso avevo percepito già in passato da chiacchiere con amici e conoscenti impegnati nel difficile mondo dell'educazione.

Probabilmente, in quest’ambito, faccio parte di una generazione di sopravvissuti: la generazione di alunni per i quali il maestro aveva sempre ragione; la generazione di alunni che per il maestro provava il giusto timore e il massimo rispetto; la generazione di alunni che mai si sarebbe permessa di mettere in dubbio quanto affermava; la generazione di alunni che le rarissime volte che provava a lamentarsi a casa per un'ipotetica ingiustizia che pensava di aver subito trovava nei genitori un inaspettato nemico e un mortificante alleato del proprio insegnante. A prescindere, direbbe Totò: “Se ha fatto così, avrà avuto le sue ragioni, hai comunque torto”. Punto. Non si fiatava, non si ribatteva, non c’era spazio per nessuna forma di confronto o di dialogo montessoriano. Si accettava. Come un dogma, come un postulato, un assioma, qualcosa che pur non essendo dimostrabile è considerato vero e assoluto. E col senno di poi aggiungerei: giustamente.

Oggi dunque le cose vanno in maniera diversa, la maggior parte dei genitori tende palesemente a difendere comunque, e –anche qui- a prescindere, i propri figli. Come se vedesse in chi sta dietro la cattedra se non un nemico, certo non un alleato nella loro educazione e nella loro crescita. Pronti a sindacare, contestare, protestare per presupposte ingiustizie subite dai ragazzi in un malinteso senso di protezione e tutela che credo non faccia bene a nessuno. Senza rendersi conto che così facendo finiscono per delegittimare davanti agli occhi dei figli l’unico importante punto di riferimento che in età giovanile ogni ragazzo trova al di fuori della famiglia. Perché se comunque il rispetto e la stima un insegnante deve saperseli conquistare è altrettanto vero che una sorta di ‘investitura’ gli deve essere riconosciuta anche dall’esterno, e dai genitori in primis.

Devo però confessare che nello scrivere queste righe sono di parte: mia madre era maestra. Una maestra che all’inizio della carriera si prendeva la sua brava corriera alle sei del mattino da piazza della Vittoria per andare ad insegnare a Sottocolle, frazione di Davagna, tornando a casa nel pomeriggio alle tre e mezza passate e che l’ultimo ciclo prima di andare in pensione, pur avendo maturato tutti i diritti per lavorare nella scuola che aveva a trenta metri da casa, ha preferito farlo in un altro quartiere perché –mi diceva- la casuale frequentazione che si sarebbe venuta a creare con i genitori dei suoi alunni negli incontri più o meno quotidiani dal panettiere, dal fruttivendolo o magari semplicemente per la strada, avrebbe inevitabilmente creato una familiarità che poteva far venir meno quel piccolo ma fondamentale distacco che secondo lei nella separazione dei ruoli era determinante per alimentare il rispetto reciproco che insegnanti e genitori devono avere tra di loro. Quel rispetto che oggi, evidentemente e tristemente, sembra essersi perduto.

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