Il commissariamento di banca Carige ha colpito al cuore il sistema economico di Genova e della Liguria: la Banca Centrale Europea è intervenuta con la forza che gli è garantita dagli accordi sovranazionali e sembra fermamente intenzionata a obbligare l’istituto a porre in essere quei provvedimenti che i soci azionisti, più ancora che il management, non volevano prendere. Almeno non subito.
E sono proprio i continui tentennamenti che hanno caratterizzato l’andamento della banca in questi ultimi anni a essere entrati nel mirino di Francoforte: i banchieri centrali hanno visto nella divergenza di posizioni tra i manager e i soci (in particolare l’azionista di riferimento, Vittorio Malacalza) come un potenziale pericolo sulla stabilità di Carige. Che, per dirla senza giri di parole, non è una pulce: se la crisi delle banche popolari spaventava governi e mercati, quella di un colosso come Carige terrorizza.
Ma la mossa decisa a Francoforte ha in seno anche altri punti di notevole importanza: il primo, tra tutti, è la scelta dei commissari. Dei tre uomini che dovranno governare la cassa di risparmio due sono gli stessi amministratori scelti dall’assemblea dei soci, l’ex presidente Pietro Modiano e l’ex amministratore delegato Fabio Innocenzi. Insieme a loro un insigne giurista, Raffaele Lener, l’unica personalità completamente estranea alla nostra regione.
Perché la Bce ha scelto la continuità? Su questo punto le reazioni sono molto diverse: alcuni, tra questi lo stesso commissario Innocenzi, sottolineano che con questa mossa in Carige non cambia praticamente nulla, se non che la nuova struttura commissariale è più snella rispetto a quella ordinaria. Quindi un invito a continuare sulla strada tracciata.
Ma qual è questa strada? Senza dubbio la Bce pretende alcune cose da Carige e le vuole in fretta: ricapitalizzare, cedere i crediti deteriorati e trovare un partner con cui costruire un’aggregazione.
Tutte cose che erano già sul tavolo del vecchio consiglio di amministrazione ma che sono rimaste lettera morta.
Adesso i commissari avranno l’immenso potere di lavorare al futuro della banca senza nessun ostacolo, rispondendo direttamente alla Bce: la prima mossa potrebbe portare alla conversione del maxi prestito del Fondo Interbancario (320 milioni di Euro che sono serviti a Carige per restare operativa) in azioni. Questa operazione cambierebbe radicalmente gli assetti azionari della banca: la Malcalza Investimenti, per esempio, perderebbe il ruolo di azionista di riferimento, passando dall’attuale 27,5% a circa il 5%.
Sui Non Performing Loan, cioè i crediti difficili da riscuotere, la banca dovrà setacciare il mercato.
Sull’aggregazione, invece, bisognerà trovare un partner solido e sufficientemente grande per sostenere il peso di questa acquisizione: scartate le ipotesi Ubi e Biper Banca (probabilmente troppo piccole per questo tipo di investimento), restano vive le piste Intesa San Paolo e Unicredit. Ma su questo secondo gruppo ci sarebbe un veto del Governo.
Che avrà, il ministro Tria lo ha già fatto capire, voce in capitolo: le esperienze delle ultime crisi bancarie hanno portato allo spacchettamento e alla cessione per una cifra simbolica (è il caso Antonveneta) oppure all’ingresso nel capitale sociale di fondi di stato (è il caso di Monte dei Paschi).
Entrambe le vicende sono state fortemente criticate dagli esponenti dell’attuale esecutivo: loro cosa faranno?
Di sicuro non potranno impedire a Carige di perdere la propria caratteristica territoriale: dopo averlo lungamente rimandato, ora Genova deve prendere atto che una banca completamente locale non è più economicamente sostenibile. La fine di un sogno, o di un incubo.
economia
Addio alla banca del territorio: ora Carige deve trovare la forza per cambiare
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