Il regista Pietro Marcello è sempre stato interessato a mostrarci drammi storici che oscillano tra l'epico e l'intimo. Se Martin Eden era incentrato suuno scrittore proletario inquieto che cercava di cavalcare l'impeto del XX secolo, Duse - basato sugli ultimi anni di una delle più grandi dive di sempre, l’icona di più di una generazione di attori, prima donna in assoluto ad apparire sulla copertina della rivista Time - compie un ambizioso tentativo di collegare la lenta scomparsa di un'antica tradizione teatrale europea con l'ascesa del fascismo interrogandosi su quale possa e debba essere il ruolo dell'artista in una società sull'orlo di una presa di potere autoritaria. Un esercizio che non riesce a portare completamente a termine ma che offre comunque un viaggio originale perché il regista si rifiuta di fare una servile biografia e invece di ambientarla nel periodo di massimo splendore di Eleonora Duse, sceglie di concentrarsi sull'ultimo decennio della sua vita, dalla fine della prima guerra mondiale alla scomparsa avvenuta nel 1924, periodo in cui affrontò enormi sfide, alcune delle quali riuscì a superare, altre che alla fine la portarono alla morte in età relativamente giovane.
La trama
Quando la incontriamo ha compiuto 60 anni e non si esibisce da un decennio. Vive rintanata in un palazzo veneziano decorato e soffocante, accudita da un’ossessiva assistente austriaca. Problemi finanziari la costringono a tornare sul palcoscenico e decide di farlo con La donna del mare di Henrik Ibsen, uno dei suoi autori preferiti. Il trionfo iniziale è però seguito dall'umiliazione quando, ferita dalle critiche della collega Sarah Bernhardt che la accusa di essere fuori dal mondo, insiste per mettere in scena un'assurda pièce d'avanguardia di un suo giovane protetto che si rivela un disastro. A ciò si aggiunge il rapporto complicato che mantiene con la figlia Enrichetta.

Una donna che cerca di essere fedele alla sua arte
Impiegando un mix di filmati reali e di finzione Marcello ci trasporta nell'Italia dei primi anni '20, una nazione che si lecca le ferite di una guerra mentre cammina da sonnambula verso un nuovo incubo politico e inquadra il ritorno dell’attrice come uno scontro tra un'artista monumentale e un mondo che le volge le spalle. È una reliquia che affronta la propria mortalità mentre il suo Paese affronta la propria anima, una donna in bilico tra sicurezza di sé e illusione, qualcuno che ha faticato a rendersi conto di non essere più amata come prima e che è vista come un residuo del passato, sebbene ancora molto rispettato. Valeria Bruni-Tedeschi si lancia nel ruolo con un abbandono incondizionato abbracciando completamente il racconto sfumato e duttile di una donna che cerca di essere fedele alla sua arte in una realtà cui non riesce ad adattarsi, in cerca della gloria nella quale un tempo si crogiolava.
Le decisioni audaci della sceneggiatura
Anziché essere ancorato alla venerazione, il film si concentra sull'esplorazione di lei come un individuo imperfetto, qualcuno i cui difetti sono difficili da ignorare, ma che non la squalificano dall'essere considerata un genio dell’interpretazione. La sceneggiatura prende alcune decisioni audaci scegliendo di abbracciare la follia della donna piuttosto che ritrarsi da essa e alla fine disegna uno sguardo rivelatore sulla vita di una diva la cui reputazione è ormai al limite del mitologico ma che qui viene svelata da un regista che è impegnato soprattutto a mostrarci i tanti strati contraddittori di una personalità che si nascondono sotto la superficie che viene invece mostrata al mondo.
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