Cultura e spettacolo

Il regista Michael Mann torna dietro la macchina da presa dopo otto anni con un progetto in gestazione da un ventennio
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Nell'estate del 1957 Enzo Ferrari stava vivendo un periodo alquanto complicato, in preda ad una profonda crisi, personale e professionale. Da un lato, l’azienda automobilistica che aveva fondato con la moglie Laura dieci anni prima, in un periodo in cui l'Italia era ancora sotto gli effetti devastanti della seconda guerra mondiale, è a un passo dal fallimento. Ma anche la vita familiare si sta sgretolando segnata dalla tragedia della morte dell'unico figlio della coppia, Dino, e dalla difficoltà nell'accettare un secondo figlio nato dalla relazione con un'altra donna, la cui esistenza ha a lungo tenuta nascosta alla moglie mentre ora aumentano le pressioni da parte dell’amante affinché riconosca le sue responsabilità genitoriali. Così Ferrari vede in una vittoria nella Mille Miglia di quell’anno l'unico spiraglio di speranza che possa cambiare il corso della sua vita, almeno dal punto di vista economico. Una vittoria potrebbe rappresentare la possibilità di superare la concorrenza della Maserati e rilanciare definitivamente il prestigio e le vendite della sua scuderia assicurandosi un florido futuro commerciale. La corsa si concluderà con la morte del pilota più glamour del momento, del suo navigatore e di nove spettatori.

Il regista Michael Mann non girava un film dal 2015. Dopo otto anni, con ‘Ferrari’ completa un periodo di gestazione di questo progetto durato un ventennio dopo una manciata di false partenze e vari rifacimenti di sceneggiatura creando non tanto un biopic su un titano dell’automobilismo ma la storia di un uomo che mentre lotta con gli affari e la famiglia inizia a sentire su di sé il peso del mondo. Tuttavia, per usare una terminologia legata alla situazione, non riesce a scaldare i motori perdendo l’occasione di approfondire il fascino del personaggio, l’audacia della sua visione, della sua tenacia e della sua determinazione di fronte alle avversità. Una maggiore profondità nello sviluppo del protagonista avrebbe migliorato l'esperienza cinematografica complessiva, in particolare per i personaggi secondari che appaiono piatti rispetto ai ruoli principali.

‘Ferrari’ è come un'istantanea, un estratto da un'epopea annunciata. Un film con un grande egocentrico, un razionalista piuttosto antipatico e distaccato, che vede i suoi piloti come strumenti e niente di più e anche Adam Driver (che a quarant’anni è costretto ad interpretare un quasi sessantenne) sembra non riuscire a stabilire una connessione emotiva con il personaggio, le sue ambizioni e il suo dolore, tanto che chi fa la figura migliore è Penelope Cruz nel ruolo della moglie. Mann graffia solo la superficie di un comportamento ossessivo e presuntuoso, senza mostrare realmente gli effetti disastrosi a catena dei suoi desideri o l'eredità risultante dai successi.

Così il meglio di ‘Ferrari’ sta nelle furiose ed emozionanti sequenze di gara con la macchina da presa che rimane incollata ai motori e alle curve mentre le auto si scatenano fino alla sequenza finale dell’incidente con il pilota Alfonso De Portago che travolge gli spettatori sul ciglio della strada ripresa con fin troppo realismo e inquietante drammaticità. In definitiva, c'è una certa freddezza in questo film, forse pianificato troppo a lungo. La fotografia accuratissima, il montaggio qua e là adrenalinico e la messa in scena evocativa contribuiscono a un senso di perfezione che spegne le emozioni. E nonostante l'attenzione che la sceneggiatura pone al versante privato e alle contraddizioni della vita di Ferrari, sono solo lo splendore delle auto, il rombo dei motori e le strade attraversate a velocità folle a restare impresse nella mente.