Cultura e spettacolo

Tra kitsch e grottesco una storia di faide familiari, tradimenti e giochi di potere
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Fu un fatto di sangue che sconvolse il mondo della moda: la mattina del 27 marzo 1995 Maurizio Gucci si dirige verso l'ufficio della sua società a Milano. Arrivato allo stabile, saluta il portinaio quando sopraggiunge un uomo che, pistola alla mano, lo colpisce quattro volte. Un delitto apparentemente inspiegabile su cui si fece luce soltanto due anni dopo quando venne arrestata la moglie Patrizia Reggiani, accusata di aver organizzato l’assassinio, e altre quattro persone a vario titolo implicate nel delitto. 

Dopo aver affrontato conflitti medievali tra verità e menzogna con ‘L'ultimo duello’, uscito solo pochi mesi fa, Ridley Scott si trasferisce ora nell’Italia degli anni Settanta per raccontare una vicenda costellata di faide familiari, tradimenti e giochi di potere. Partendo da un libro dal quale comunque si prende molte libertà, costruisce qualcosa a metà tra ‘Dinasty’ e ‘Il padrino’, un’epica storia criminale che copre circa due decenni e vede ancora una volta una donna prendere in mano il proprio destino – non importa in che modo – inserendosi nel solco di altre eroine che ci ha mostrato nel corso della sua carriera, dalla Ripley di ‘Alien’ alle Thelma e Louise del film omonimo. Molta parte di questo film che si avvale di un cast-all star (Adam Driver, Al Pacino, Jared Leto, Jeremy Irons, Salma Hayek) ruota infatti intorno alla Reggiani interpretata da Lady Gaga, convincente nel mostrarci il suo cambiamento dalla giovane donna pudica che incontra ad una festa il suo futuro marito alla donna scaltra, paranoica e disperata che decide di fare ciò che ha fatto. Una Lady Macbeth che cova rancore e gelosia rendendo il film non lontano a suo modo da un’epopea shakespeariana. 

E’ questa la via, condivisibile o meno, che ha scelto Ridley Scott al quale evidentemente non interessava né una fedele ricostruzione storica né una particolare verosimiglianza tanto da girare la scena dell’omicidio di Gucci non dove realmente è avvenuta, in via Palestro a Milano, ma addirittura a Roma solo perché quel giorno nel capoluogo lombardo era prevista pioggia e non voleva contrattempi. Chiunque si aspetta lusso, glamour e passerelle rimarrà deluso perché non è questa la strada scelta dal regista. Ciò che compie è invece una crudele dissezione dell’ascesa e della caduta della maison Gucci concentrandosi sul periodo d'oro, quando i grandi successi già ottenuti in precedenza avevano aperto la strada a opportunità di ricchezza ancora maggiori. Un periodo però che con i tanti conflitti esplosi all’interno della famiglia hanno portato alla fine della loro gestione dell’azienda. 

Poi, dal punto di vista strettamente estetico, c‘è un termine moderno che definisce con precisione l’operazione di Scott: ‘camp’, con il quale si intende un uso deliberato, consapevole e sofisticato del kitsch che gli permette di trasformare in una soap opera quella che all’apparenza è la fiaba di una ragazza di umili origini che sposa il giovane rampollo di una potente dinastia contro il volere della famiglia che vede in lei solo un’arrampicatrice sociale. Dunque amore, lussuria e criminalità a piene mani cui vanno purtroppo aggiunti gli inevitabili e grotteschi stereotipi su un’italianità da operetta che evidentemente all’estero è difficile cancellare. 

Non è un film riuscito, ‘House of Gucci’, trovando solo a tratti un equilibrio accettabile e tuttavia è comunque un ‘film d’autore’ che segue una linea precisa, quella di voler smantellare con allegra disinvoltura un’intera dinastia. E se pure è una saga che sfida ogni logica, rappresenta comunque un accettabile spaccato sulla miseria umana, l’ossessione per la ricchezza e ciò che siamo capaci di fare per conquistarla a tutti i costi.