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Niente come il calcio insegna che ogni cosa avrebbe potuto essere il suo stesso rovescio; e che quindi ogni felicità, ogni dolore è solo un terribile equivoco.

Se penso ai calci di rigore, ricordo soprattutto quello che cambiò per sempre, e in negativo, la storia della Sampdoria. 16 maggio 1999, Bologna, ultimo minuto di gioco della penultima di campionato. Simutenkov del Bologna cade a contatto di Sakic. Non c’è assolutamente fallo. L’arbitro, non molto tempo dopo dettosi pentito di quella decisione e forse avrebbe fatto meglio a tacere, concede però il rigore, dalla panchina Mazzone ordina che a calciare non sia lo specialista Signori, l’anno prima al Doria, non sia mai che sbagli; tocca così a uno svedese che freddamente trasforma. Dopo 17 anni, la Sampdoria retrocede in B e ci starà fino al 2002. Quasi subito, intanto, si approfondiranno due spaccature, la prima fra società e tifoseria e la seconda all’interno della tifoseria stessa, e se ne determinerà una terza, quella tra i due destini della dinastia Mantovani e della Sampdoria. Ah, dimenticavo, Mazzone, due mesi dopo, va ad allenare il Perugia di Gaucci, cioè la squadra che grazie al risultato di Bologna si è salvata sulla pelle del Doria. E che quella stessa domenica ha vinto, abbastanza sorprendentemente, a Udine.

Nulla, da allora, per la Sampdoria, è stato più come prima. Se mai quella stagione storta fosse stata sanata in extremis, può darsi che la squadra sarebbe rimasta a lungo, e forse stabilmente, nella A dove di lì a poco sarebbero arrivati i miliardi delle tv, e quindi nome e prestigio contavano. Non sarebbe scivolata al punto di dover essere salvata; così forse, in caso di bisogno e a tempo debito, sarebbe stata consegnata in mani migliori di quelle che purtroppo sappiamo.

Se rileggo la storia ormai lunga della squadra che mio papà mi aveva portato a vedere, a Genova in treno, giusto cinquant’anni fa il 9 aprile per uno 0-0 con la Juventus, c’è una sicura continuità, soggetta però a piccole, forse minime intersezioni tra il possibile e il reale. Di ogni campionato, di ogni torneo a eliminazione si può individuare almeno una partita, e in quella partita un episodio, che dividono quel che è stato da quel che non è stato: Sbarbaro, uno che piaceva al professor Chiapuzzo che di Sampdoria ne aveva vista tanta, quasi tutta, diceva “men che la scia della nave acqua da acqua”. In una notte di trent’anni fa ci eravamo visti passare tutta la vita davanti, quanti gol che sembravano lì lì per fiorire ma non erano sbocciati; e poi in un attimo era stato tutto il futuro ad appassire. A Londra, dove l’uomo di quel rimpianto sarebbe andato a vivere, a diventare padre, a coltivare nostalgie fino alla rivincita apocrifa della scorsa estate: nello stesso stadio ma diverso, da bordo campo e non più splendore sull’erba.

Sempre per parlare di rigori. Passò da due serie di tiri dal dischetto, prima a Pisa nei sedicesimi e poi a Roma negli ottavi, la quarta e finora ultima Coppa Italia del 1994; finora ultima perché la quinta sarebbe sfumata ai rigori, appunto, al secondo a oltranza, nel 2009 in finale in casa della Lazio. Così come l’accesso alla terza finale di Coppa delle Coppe, nel 1995. I rigori danno e i rigori tolgono, insomma.

Quest’anno un tiro dal dischetto, s’intende parato, ha dato una mano decisiva al Doria per salvarsi, in una prospettiva come non mai rusticana. Ma il rigore davvero importante in bello, nella storia della mia squadra, è quello del 5 maggio 1991, Inter-Sampdoria. La partita era ancora lunga, più di una giornata senza pane, era il minuto 67 e quindi ne mancavano 23: fallo stupido e inutile di Cerezo su Berti, sul dischetto va Matthaeus, in porta c’è Pagliuca e proprio con Pagliuca, che tre anni dopo andò all’Inter dopo aver giocato la finale del Mondiale a Pasadena, ci chiediamo spesso come sarebbe finita quella partita se non avesse parato quel rigore. Ma poi parlare con lui di rigori è crudele, perché sa benissimo che al Rose Bowl lui uno l’aveva parato, a Marcio Santos del Brasile, mentre Buffon a Berlino zero, con Trézeguet ci aveva pensato la traversa, ma i suoi compagni ne avevano segnati due su cinque, quelli di Buffon cinque su cinque. Risultato dei miei conti: Buffon zero rigori parati campione del mondo, Pagliuca un rigore parato no.

Resta che senza quella parata, doppia perché quasi bissata sulla ribattuta, la più bella Sampdoria di sempre e una delle più possenti squadre italiane di ogni tempo sarebbe rimasta senza Scudetto. Un titolo che splende ancora “come un diamante in mezzo al cuore”, chissà in quanti sanno che a scrivere i versi di quella canzone era stato un piccolo grande uomo sampdoriano. E sarebbe stata, quella sì, un’ingiustizia. Una delle tante che dispensano il calcio e la vita. Che infatti si assomigliano, specchiandosi l’una nell’altro. Taciturna come il dolore, appunto, e la felicità.

 

 

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