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Oggi cade l'anniversario del rapimento di Aldo Moro. Non ho volutamente scritto riflessioni visto che in questi anni abbiamo letto, ascoltato e visto miliardi di parole e immagini. Semplicemente, ho messo in fila i miei ricordi personali.

Sono passati 40 anni, ma ricordo come fosse ieri. La mattina di quel 16 di marzo ero tra quei pochi giorni che passano tra la fine del servizio militare e la ripresa del lavoro ed ero in casa a studiare per un esame. Verso le 10 suonò il telefono; era Paolo, dirigente dei giovani DC. “Le Brigate Rosse hanno rapito Moro, accendi la televisione”.

Sembrava impossibile. Certo, la violenza politica in quegl’anni era costante e diffusa. Certo, i Democratici Cristiani erano stati più volte colpiti dalle BR. Ma questa era un’altra cosa. L'avrebbero chiamata poi “La notte della Repubblica”; io, che pure capivo l’immensa portata istituzionale della vicenda, allora la lessi istintivamente come un attacco al simbolo della nostra cultura e della nostra storia, della nostra soggettività politica e anche della nostra comunità di persone. E insieme, sentii l'orgoglio di essere Democratico e Cristiano. Feci un po' di telefonate ai dirigenti del Movimento Giovanile, allora ne ero il Segretario Regionale, chiedendo di fare il passa-parola, “ci vediamo in via Caffaro”.

Arrivai alla sede del Comitato Provinciale poco dopo le 11 ed era piena di amici e militanti; rimasi poco, giusto il tempo di salutare e prendere le bandiere. Bisognava andare alla manifestazione che Cgil, Cisl e Uil avevano organizzato a Piazza De Ferrari per mezzogiorno.

Ci posizionammo sotto il palco, un po’ spostati verso via Roma; ricordo vicino a me Giancarlo Dagnino, che un anno dopo sarebbe stato vittima di un attentato terroristico, Pippo Giambarresi, sindacalista della Cisl e il grande Ugo Signorini; e mi dispiace di non avere memoria degli altri tanti democristiani presenti con la bandiera bianca scudocrociata. Piazza De Ferrari era stracolma. Parlarono molti dirigenti sindacali e per conto della DC Angelo Sibilla segretario regionale e vittima otto mesi prima di un attentato delle BR di cui avrebbe portato i segni per tutta la vita; nelle sue parole ritrovai i miei ragionamenti e le mie emozioni, che poi erano quelli di tutti i democristiani: la preoccupazione per tutti, il dolore e l'orgoglio per noi.

Dopo quella mattinata, la Direzione Provinciale si riunì tutti i giorni – era allora segretario Giancarlo Piombino, Sindaco di Genova fino a 1974 – non nella sede abituale, ma nel sottostante Teatro Paganini per consentire la partecipazione di tutti i quadri dirigenti. Decidemmo subito di non fare manifestazioni di Partito, convincendo anche alcune Sezioni locali che avrebbero voluto subito attivarsi in autonomia. Moro era uno di noi, ma l'attacco dei terroristi era alle Istituzioni ed alla democrazia. E dunque, in linea con la cultura politica degasperiana, la risposta doveva essere istituzionale e partecipata dalla maggior parte possibile dei cittadini. Tutte le iniziative furono dunque convogliate in richieste di convocazioni straordinarie dei Consigli Comunali e di incontri organizzati dall’associazionismo genovese.

Nelle Direzioni allargate che facevamo tutti i tardi pomeriggi si commentavano le novità accadute, i comunicati, i silenzi e si faceva il punto della iniziative; devo dire che mai ho sentito un democristiano genovese discostarsi dalla linea della fermezza e del rifiuto della trattativa né quando ci chiedevamo come sia possibile di non riuscire a trovare la prigione di Moro né quando col passare dei giorni aumentava la consapevolezza di una sua fine drammatica.
Intanto, le iniziative istituzionali e politiche che si sviluppavano in ogni parte della Città e in ogni piccolo paese della Provincia avevano prodotto una grande mobilitazione delle coscienze e quel clima di rispetto reciproco e di solidarietà che si crea solo nelle situazioni di pericolo condiviso. Il dibattito schiettamente politico si indirizzava poi nella direzione del rifiuto della trattativa con i terroristi; la presenza di posizioni diverse, presenti a livello nazionale in maniera crescente man mano che i giorni passavano inutilmente, fu un fatto numericamente non rilevante.

Un confronto diverso si sviluppava invece tutto interno alla sinistra dove il Gruppo dirigente del PCI anche diffuso sul territorio, che aveva sempre condannato le azioni violente e che lavorò da subito per il sostegno unitario alle Istituzioni, dovette fare i conti non solo con la galassia delle organizzazioni antagoniste, ma anche con ampi pezzi del suo elettorato, anche organizzato, che sosteneva la linea del “né con lo Stato né con le Brigate Rosse”. Per loro, in fondo, finché sparavano a Magistrati, Forze dell’ordine, Dirigenti d’azienda, Democristiani erano solo “compagni che sbagliano”. Capiranno di essere loro a sbagliare nel giro di quasi due anni, quando le BR uccisero Guido Rossa.

Per parte nostra, il tempo che passava senza mai una notizia positiva aveva accentuato il dolore e l'orgoglio. Gli uffici di via Caffaro erano costantemente presidiati dalla Polizia e avevamo avuto indicazioni su come comportarci nel tragitto da e verso casa, ma l’unica emozione che non provavamo era la paura. Forse ci eravamo abituati. Magari perché vivevamo in una città dove il terrorismo rosso aveva già fatto vittime, da Alessandro Floris, fattorino dello IACP al Giudice Francesco Coco e la sua scorta o magari perché nei mesi precedenti, oltre alle macchine bruciate e ai volantini, tre democristiani genovesi erano stati feriti alle gambe. Forse era semplicemente consapevolezza e l’avevamo messo nel conto del nostro fare politica, perché essere democristiani in quegli anni voleva dire correre anche rischi fisici.

Scrivendo questi ricordi, mi rendo conto che il mondo è cambiato da allora molte volte e che per un ventenne di oggi siano scenari difficili da immaginare. Del resto, a noi che avevano vent'anni allora, se ci avessero fatto vedere la politica di oggi, avremmo detto che è inimmaginabile.