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di Matteo Angeli

La liberazione di Giovanni Brusca, l’uomo che nel 1992 premette il pulsante dell’esplosivo che fece a pezzi il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e gli agenti della scorta, è una notizia che scuote le coscienze. Non perché sia illegittima, Brusca ha scontato la pena prevista, ha collaborato con la giustizia, ha usufruito delle norme vigenti. Ma perché mette a nudo la frattura, profonda e dolorosa, tra legalità e giustizia percepita.

Brusca non è un mafioso qualunque. È l’uomo che confessò oltre 150 omicidi. Che ordinò lo scioglimento nell’acido del piccolo Giuseppe Di Matteo. È diventato collaboratore di giustizia, sì – e la sua collaborazione ha portato a risultati importanti. Ma il peso morale dei suoi crimini è tale da rendere la sua libertà un paradosso che in molti faticano ad accettare.

La reazione della società civile è stata istintiva: indignazione, rabbia, smarrimento. È lecito che chi ha perso amici, parenti o colleghi sotto i colpi della mafia senta questa scarcerazione come uno schiaffo. Perché se è vero che Brusca ha parlato, ha contribuito a smontare pezzi di Cosa Nostra, è anche vero che la sua libertà arriva mentre altri, le vittime, restano sotto terra. E mentre i familiari convivono con un lutto che non ha fine.

La legge italiana, fortemente voluta da Giovanni Falcone stesso, prevede benefici per i pentiti. È un pilastro nella lotta alla mafia. Ma l’applicazione meccanica di questa norma, senza un dibattito pubblico serio su casi limite come questo, rischia di far vacillare la fiducia nello Stato. Perché non si può ignorare il sentimento popolare, che – per quanto emotivo – è anch’esso parte della tenuta democratica.

Serve allora una riflessione. Non per negare il diritto, ma per migliorarlo. È giusto che un collaboratore abbia sconti? Sì, se collabora davvero e con pentimento autentico. Ma è sufficiente la collaborazione per chi si è macchiato di atrocità senza nome? O dobbiamo immaginare un sistema più graduato, dove la possibilità del reinserimento sia valutata con criteri più stringenti, anche morali?

Lo Stato ha fatto il suo dovere nel rispettare la legge. Ma oggi quella stessa legge impone un dovere ulteriore: ascoltare il Paese, riflettere sul significato profondo di giustizia e fare in modo che norme nate per proteggere la collettività non diventino un boomerang che ne scardina la fiducia. Perché la giustizia non è solo l’applicazione di una norma: è anche il suo riconoscimento come giusta da parte dei cittadini.