Anche lui lo hanno scelto laggiù nel mondo alla fine del mondo, il centravanti del futuro, della speranza. Il paragone con papa Francesco, che descrisse così il suo arrivo sul trono di Pietro, è certamente irriverente, ma non si può non riannodare quel filo indissolubile tra l’Italia e l’Argentina e ancora di più tra l’Argentina e Genova.
Il calcio fa parte di questo filo, di questa trama che non si interrompe. I genitori di papa Bergoglio partirono da Genova in quel flusso di andata e ritorno che è la storia del nostro porto, ma anche la storia dell’emigrazione. E dall’altra parte è la storia del calcio genovese, sopratutto di quello genoano, scandito sempre dagli arrivi dei campioni “porteni”.
Mateo Retegui è l’ultimo capitolo di questa storia calcistica che lega in modo continuato e persistente il mondo rossoblù a Buenos Aires e all’Argentina. Non è un caso che a “benedirlo” in modo decisivo sia stato proprio Diego Milito, il “principe”, forse il più grande sbarcato a Zena da laggiù.
Certo, ma è stato più grande lui o Guillermo Stabile, “el filtrador”, il capocannoniere per la nazionale argentina con più reti segnate in un Mondiale, quello del 1930, che nel 1931 sbarcò nel senso letterale nel porto di Genova dal lungo, allora lunghissimo viaggio in nave di venerdi e domenica scese in campo con la maglia rossoblù, segnando tre gol al Bologna, senza tradire la minima stanchezza o la mancanza di allenamento. La galleria dei giocatori argentini e dei loro “cugini uruguagi”, da Abbadie a Pato Aguilera, arrivati qua, è talmente lungo che ripercorrerla è come sgranare un rosario di nostalgia.
Ci ricordiamo gli ultimi come Palacio, e Perotti e ci incantiamo sempre davanti a quel modo di giocare diverso, quella capacità di toccare la palla unica al mondo, se ha prodotto il genio assoluto del pallone, Diego Armando Maradona.
Retegui arriva dal Tigre, ma era di proprietà del Boca Juniors che vuol dire Genova, perché è la squadra di quel quartiere affascinante, affacciato sul Rio de la Plata, dove i genovesi avevano ed hanno la loro patria in Argentina.
Il Boca e il River Plate sono le due squadre più note di Buenos Aires, la loro rivalità mitica, lo scontro diretto, è più di un derby, è il “Superclassico” argentino, una partita sempre leggendaria. Se si pensa che il match del 1968 fu tanto “forte” da provocare al “Monumental”, lo stadio del River, 70 morti e 150 feriti.
La peggior tragedia del calcio argentino, diventata anche un film. Non si sa perché in quella parte del mondo il calcio sia una tale esaltazione per il talento unico che sbuca su quei campi, per la passione del tifo. Se si pensa che gli inglesi di The Observer, qualche anno fa, misero la partita Boca-River tra i 50 eventi sportivi mondiali ai quali bisogna assistere prima di morire, si capisce da che “cancia” arriva Retegui.
Non a caso Lele Adani, il commentatore tv, ex giocatore, uno dei più appassionati cultori del calcio sudamericano, abbia definito Mateo Retegui, un “attaccante famelico”, uno che cerca il gol con quella rabbia e quella determinazione che germogliano a Baires e nel campionato argentino.
Ora è facile aspettarsi che quella “garra” argentina la vedremo a Marassi con Retegui, come l’abbiamo vista con Diego Milito, quando colpiva il pallone facendo quello schiocco inconfondibile prima di finire in rete o nelle serpentine di Perotti o nelle magie assolute di Palacio, che se gli chiedessero di continuare a giocare a Genova lo farebbe ancora 42 anni suonati.
Certo non tutti sono stati ricordi indimenticabili. Ci sono state anche delusioni e infortunii, come per Lucio Figueroa, arrivato qua da Buenos Aires con la fama superiore a tutti quelli appena nominati e che per una serie di incidenti a catena non riuscì mai a esprimersi. Eppure ricordo che uno che se ne intende, come Giampiero Gasperini, che lo allenava, confidava che raramente lui aveva visto “un colpitore” come quello sfortunato campione. Se gli inglesi sostengono di avere inventato il calcio, gli argentini dicono che loro hanno inventato l’amore per l calcio.
Tutto nasce, appunto, alla Boca, il “nostro” quartiere dove gli antenati sbarcarono in cerca di fortuna e di vita, di denaro all’inizio del ‘900. Così comincia questo viavai tra Buenos Aires e Genova, fatto di uomini che cercavano condizioni migliori e che poi magari tornavano indietro dopo avere cantato fin troppo il nostro inno “Ma se ghe pensu” e poi di campioni di calcio chiamati a mostrare il loro estro sotto la Lanterna.
Retegui è l’ultimo, ma ha quella faccia inequivocabile di chi aspetta il pallone tra i piedi per girarsi e metterlo in porta. Lo ha imparato laggiù e ora tutti aspettiamo che lo faccia con la maglia rossoblù addosso.
In più lui ha il sangue italiano che gli scorre nelle vene, al punto di giocare tra gli azzurri. I suoi avi dalla Sicilia sono emigrati a Buenos Aires, chissà se anche il loro viaggio era partito a Ponte dei Mille - Genova. Non importa: il filo è lo stesso e lega indissolubilmente due terre lontane e affini. Nel nome del calcio e oggi anche in quello alto, altissimo, del papa arrivato da quel mondo alla fine del mondo.
IL COMMENTO
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