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GENOVA - Dopo la tragedia di ponte Morandi mi sono trovata tantissime volte a parlare, ad intervistare i residenti del quartiere di Certosa e di Sampierdarena a Genova. L’incredulità i primi mesi, la disperazione per l’isolamento, mentre il tempo passava. La curiosità per la costruzione della nuova opera. Ma c’è una cosa che ho notato sempre e che continuo a notare a quattro anni dalla tragedia. È il pudore, quasi l’imbarazzo, il senso di compassione (intesa come profonda partecipazione al dolore altrui) che le persone che vivono li provano nei confronti dei familiari delle vittime.

Sono tornata lì in coincidenza con il primo giorno del processo e di nuovo ho notato come gli sguardi si abbassino quando si chiede a chi vive e a chi lavora in quei quartieri che cosa si aspetta da questo processo. Il primo pensiero è sempre per i parenti delle vittime. “Sembra scontato dirlo” è la frase che più spesso si sente pronunciare nelle interviste.È vero, sembra scontato dirlo, che si vuole essere vicini ai parenti delle vittime, ma non lo è così scontato. In un paese, in un mondo dove complici i social, si assiste spesso ad episodi di egoismo e menefreghismo, credo che questi sguardi e queste parole assumano un significato ancora maggiore. Non è scontato dire che anche dopo quattro anni e per sempre, del dolore dei parenti delle vittime sia impregnata questa zona di Genova. Mi piace immaginare un abbraccio collettivo di chi abita o lavora a Certosa e Sanpierdarena, nei confronti dei parenti delle 43 vittime.

C’è un pezzo di ognuno in questa parte di Genova. Ci sarà sempre un pezzo di ognuno di loro nel giardini sotto il ponte Morandi, nel memoriale, e sono sicura che non sia semplicemente un modo di dire, qualcosa di finto, quando si dice che qui, soprattutto qui, non si potrà mai dimenticare quello che è successo. Erminia, una sfollata mamma di un ragazzo che ha una pescheria in via Jori a Certosa, l’altro giorno mi ha detto “il crollo qui è ogni giorno“, un ristoratore mi ha detto “nulla tornerà mai più come prima“. Ma sono sicura che non parlavano semplicemente di affari, di saracinesche chiuse, ma di qualcosa di più profondo, quel senso di partecipazione reale che si vive e si vivrà sempre in questi quartieri.

Antonietta, che abita in via Biagini vista ponre; il primo giorno di processo, come molti altri certosini, è andata sotto il tribunale nonostante camminasse fatica a causa di un intervento. Chi gliel’ha fatto fare? Non certo la ribalta delle telecamere ma un senso di voglia di vicinanza ai parenti delle vittime. Un legame unisce e unirà sempre i parenti delle vittime che pur vivono lontani da Genova, e chi qui vivrà sempre. Chiunque passando sotto il nuovo ponte, si trova ad immaginare che sarebbe potuto toccare a chiunque.

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