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I conformisti sono gente solitamente noiosa, ma peggio di loro sono i conformisti che si fanno passare - quasi sempre con successo popolare - per anticonformisti. Da qualche tempo, il canone della vita culturale e artistica è prima di tutto la prevedibilità ripetitiva, una musique de robinet immancabilmente identica a sé medesima che evita il conflitto, le scomodità, le contraddizioni. A desolare vieppiù il grigio presepio, il fatto che i protagonisti siano sempre gli stessi, e può darsi che siano sempre gli stessi perché intelligenza talento e virtù fioriscono soltanto sotto certe lune, ma potrebbe anche essere che sia così perché la dogana di accesso sia stata irreversibilmente occupata da occhiuti controllori del “tu sì, tu no”.

Non accade più niente che non ci si sia aspettato. Fresco esempio: facile urlare "F**k tiranno" a migliaia di chilometri di distanza o anche solo lontano dalla gittata dei suoi missili, un po' più complicato - e davvero anticonformista - sarebbe farlo faccia a faccia. Infatti non lo fa nessuno, per non finire a giocare a briscola con gli orsi o sorseggiare polonio. Ancor più facile urlacchiare “no alla guerra!”, “no all’inquinamento!”, no insomma a tutte le cose brutte. Astenendosi accuratamente anche solo dall’accennare a un abbozzo di soluzione concreta. Ma intanto la bella figura è assicurata, l’applauso strappato se non la lacrima e, soprattutto, il prossimo contratto.

Ma tant'è. Leggi l'elenco dei premi letterari e cinematografici e teatrali e musicali, scorri le proposte dell’industria culturale e trovi altrettanti compitini pulitini, tanto più lindi e artefatti quanto più si propongano come bradi e irrequieti, tutti perfettamente allineati al pensiero dominante anzi unico, eppure i loro artefici se la tirano da indomiti resistenti a un potere che di fatto li ha generati e vidimati, li finanzia, li controlla con periodico bollino. Un quadro di “polli di allevamento”, come disse Gaber, che altri due ribelli autentici fin dagli anni Settanta avevano tracciato con rasoiate compassate e allegre alla Fontana: la casa discografica adiacente che veste il cantante come un deficiente e lo lancia sul mercato sottostante di Jannacci e gli impresari di partito mi hanno fatto un altro invito e hanno detto che finisce male se non vado pure io al raduno generale della grande festa nazionale del primo Bennato (in una vecchia e rara e sfocata foto, i due artisti in concerto). D’estate poi lo scenario è impressionante: la stagione pullula di rassegne e kermesse e festival, sono centinaia, ma a campeggiarvi è sempre la solita pulitissima e correttissima compagnia di giro di una dozzina di soggetti che saltabeccano da una fiera all'altra, sempre recitando la stessa filastrocca inodore e insapore del bene contro il male, che non cambierà mai il mondo ma il conto in banca del recitante sì.

Nulla che non sia intuibile dalle prime battute. Anche perché dovrebbe andar di moda qualcosa di bello e ben fatto, qui invece ci si siede a tavolino e si pensa a come fare qualcosa in linea con quel che va la moda, e se poi è anche bello e ben fatto meglio ancora, ma non è fondamentale. Verrà gabellato come tale nel segno della tautologia.

L’ecologia a costo zero, l’ecumenismo gratis, la libertà di chiamare libertà perfino il capriccio e il paradosso, ridipingere i nomi nell’illusione di cambiare le cose, far coincidere se stessi con il tutto, naturalmente per sentirsi buoni, anzi ottimi; migliori, anzi i migliori. “Il Paese migliore”, il più lugubre degli slogan autoreferenziali mai risuonato in una landa che pure si vorrebbe democratica. Non c’è romanzo o saggio, non c'è pellicola o sceneggiato, non c'è disco o balletto o recita o allestimento lirico, o niente insomma che venga classificato arte, che non contenga almeno uno di questi ingredienti. Che si spacciano per eroicamente ribelli e contestativi se non eversivi, quando invece sono perfetti prodotti di catena di montaggio, omologati dall’ufficio brevetti che decide che cosa si possa dire e fare e che cosa invece no, che cosa vada nella stagione primavera-estate e che cosa in autunno-inverno, per una deriva che si risolve, gabellata come risarcimento interessato del pregresso, nella dittatura di spesso sparute minoranze. Guai infatti a chi non si adegua.

Che cosa è successo, e quando, a sfigurare l'idea che la ragion d'essere di pensatori e artisti fosse il dubbio, la provocazione, la fuga dall'ovvio, lo scandalo? A cosa servono l'arte e il pensiero, se si risolvono nella ratifica di quel che viene protocollato colà dove si puote?

Qualcuno, sommessamente e quasi in silenzio, comincia per fortuna a bofonchiare, a dire che non si può più dire nulla, che perfino la comicità sta morendo di troppa "correttezza", ovvero una versione fintamente bonaria del totalitarismo. E quando se la passa male un genere irrinunciabile come il Comico, da sempre unico reale antidoto etico contro gli eccessi di potere, vuol dire che a breve andrà a catafascio tutto il resto. Se c'è un canone comune ad ogni regime totalitario, infatti, è il divieto di ridere senza permesso e fuori dai bersagli obbligati. E siamo arrivati esattamente qui. A non ridere più, se non alle spalle chi non ha più niente da ridere.