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Londra - Trovo sbagliata e preconcetta la polemica politica che si è accesa in questi giorni sul pesto in salsa inglese: il gigantesco mortaio chiamato a vascheggiare sul Tamigi per reclamizzare la Liguria attraverso il suo prodotto più famoso a qualcuno non è piaciuto al punto da farne una crociata.

Ognuno ha il sacrosanto diritto di scegliere contro chi o cosa scatenare i propri strali, ci mancherebbe, ma tutto questo scandalo attorno a un’iniziativa di marketing suona un tantino esagerato.

Soprattutto in chi, come me, ha avuto la possibilità di vedere dal vivo il mortaione della discordia. Era veramente così brutto, trash e chi più ne ha più ne metta? Ha insozzato l’immagine della Liguria nel mondo, annichilito la sobrietà genovese? I Doria e i Fieschi si stanno rivoltando nella tomba?

In realtà l’installazione, perché alla fine questo era, si è mescolata egregiamente all’ambiente in cui è stata inserita: la chiatta è uno strumento di lavoro molto diffuso sul Tamigi e quella su cui è stato posizionato il mortaio era una delle tante che navigano il fiume; l’architettura che costeggia il corso d’acqua è anch’essa in piena armonia con il ferro e l’acciaio: su South Bank si affaccia la Tate Modern, forse il più importante museo d’arte contemporanea al mondo, realizzato riconvertendo una centrale elettrica. Sui Docks e poi su fino a Embankment, i palazzi raccontano storie di lavoro e industria, i ponti, uno dopo l’altro, sono vie di comunicazione stradale e ferroviaria indispensabili ancora oggi allo sviluppo della città. Qui si sferraglia, si sbuffa, si suda. La grande chiatta è una di loro.

E poi grande quanto? Anche su questo si sono accese polemiche fenomenali fatte di pugnace retorica: ebbene il mortaione non era tanto ‘one’, era della dimensione giusta, piuttosto. Doveva essere visibile da una certa distanza per assolvere alla sua funzione pubblicitaria, e direi che ci è riuscito piuttosto bene. Più piccolo si sarebbe confuso tra i battelli, le chiatte e le luci della città: direi, a onor del vero, che avrebbe potuto essere persino un po’ più grande ma tant’è.

La sua illuminazione, poi, mi è parsa gradevole: il mortaio, il pestello e il basilico si stagliavano benissimo tra le luci della città, senza risultare invasive. Avrei aggiunto, ma questa critica in giro non l’ho letta, al nome della nostra regione un rifermento al Paese: un Italy sulla fiancata avrebbe aiutato a inquadrarci meglio, non sono sicuro che i londinesi sappiano esattamente dove siamo. Così come non posso pretendere che il genovese medio conosca il Costwolds (anche se dovrebbe…), altrettanto non posso chiedere agli inglesi di recitare a memoria le regioni italiane. Magari aggiungiamolo, la prossima volta.

Si dice che tutta la missione sia costata una mezza milionata: non conosco la cifra esatta ma visto quello che il mio cameraman ed io abbiamo speso in due giorni non mi meraviglio. La vera domanda è: sono stati spesi bene?

Qui si entra in un campo che non è del tutto mio ma alcune considerazioni mi sento di farle. La fiera internazionale del turismo mi ha molto colpito: c’erano tutti i paesi del mondo, ma proprio tutti! Persino la Palestina, con il cui delegato ho discusso scherzando di quanto sia difficile vendere pacchetti turistici per la Striscia di Gaza in questo periodo. Ma non è importante farlo adesso, in effetti, ciò che conta è far sapere a tutti quante cose belle ci sono da scoprire persino in una terra martoriata come quella.

Alcune regioni italiane lo hanno capito, soprattutto quelle a statuto speciale che hanno da sempre risorse più importanti da investire: dovevate vedere gli stand della Sardegna, della Sicilia, del Veneto. Se non fosse che poco distante c’era l’Arabia Saudita, che a proposito di sobrietà ha occupato mezzo padiglione con una teoria infinita di rutilanti stand, sarebbero le nostre le regioni più cool della fiera. La Liguria sta seguendo quella strada, se faccia bene o male lo diranno i dati sull’incoming dei prossimi anni.

Ma non pensiate che i turisti vengano gratis: ho parlato con molti operatori in questi due giorni, tutti mi hanno spiegato che per aumentare la quota dei visitatori internazionali servono accordi con i grandi tour operator che non possono prescindere da un’offerta ampia e sinergica che si può presentare solo se tutte le componenti, istituzionali e privatistiche, lavorano in coro. Se non vai tu a presentare la tua offerta ci va un altro, e la fetta di torta la mangia lui.

È questa la scommessa che deve essere vinta: la promozione del territorio è una condizione necessaria ma non sufficiente. La Liguria deve presentarsi ai grandi tavoli con più camere d’albergo per ottenere più collegamenti aerei. Deve ampliare la sua proposta, deve essere credibile e accogliente. E dovrebbe essere anche meglio collegata, ma questa è un’altra storia e noi lo sappiamo bene.

Dal 2014 le Camere di Commercio hanno accesso ai dati di fonte Inps che sono il termometro dell'occupazione privata, dando conto del totale degli addetti (i titolari d'impresa e i loro dipendenti) di tutte le imprese attive iscritte al Registro camerale.

Nell'intero periodo il numero degli addetti delle imprese è cresciuto del 15,9%, passando dai 425.825 del 2014 ai 493.405 di oggi.
"Se teniamo conto del fatto che, nello stesso periodo, la popolazione attiva è diminuita del 6,1% (passando da 966.507 a 907.533 persone) - spiega il segretario generale della Camera di Commercio Maurizio Caviglia - si tratta di un'ottima performance da parte delle imprese della nostra regione, che negli ultimi nove anni hanno costantemente incrementato il proprio livello di occupazione con la sola eccezione del periodo pandemico".

Negli ultimi due anni, poi, la crescita è stata particolarmente sostenuta: gli addetti all'occupazione privata in Liguria sono aumentati dell'1,8% rispetto al 30 settembre 2022 e del 6,7% rispetto alla stessa data del 2021, con una crescita complessiva negli ultimi due anni di quasi 31mila addetti.

Dall'analisi dei dati Inps tra il 2014 e oggi risulta che il numero degli addetti delle imprese in Liguria ha raggiunto, al 30 settembre scorso, il massimo storico, pari a 493.405 addetti.

Numeri positivi che fanno ben sperare per il futuro ma numeri che stridono con quelli che si leggono sempre sul rapporto di Unioncamere nazionale. Sul territorio regionale le imprese registrate al 30 settembre 2023 sono 159.078 mentre nello stesso periodo dello scorso anno erano 161.585: il saldo negativo rispetto al 2022 è di 2.507 aziende. Per quanto riguarda invece le imprese attive, al 30 settembre dello scorso anno in Liguria erano 134.349 mentre adesso, nello stesso periodo del 2023, sono 133.877 con un calo di 472 aziende da un anno all’altro.

Come si possono leggere questi numeri? Semplice: aumentano le grandi aziende che assumono ma chiudono quelle medio piccole. 

A fallire sono principalmente le piccole e medie imprese soprattutto ditte individuali. A pesare sono i costi dell'energia al caro affitti, dalla difficoltà di accesso al credito e il rallentamento dei consumi fino ad arrivare alla concorrenza della grande distribuzione e del web. Tutti fattori che non solo stanno accelerando le chiusure di imprese nel commercio, ma anche facendo crollare la nascita di nuove attività. Il centro di Genova per ora resiste, molti quartieri periferici hanno invece alzato bandiera bianca e per questo serve una politica lungimirante che venga loro in soccorso. Come? Come è stato fatto qualche anno fa con l'Università di Architettura inserita nel centro storico, in stradone Sant'Agostino. Un'idea vincente che ha cambiato totalmente aspetto all'intera zona oggi sicuramente una delle più vive della città basti pensare a cosa è via Ravecca. Insomma una battaglia difficile ma che si può vincere.

 

Due anni fa alla fine dell’intervista che gli avevo fatto per presentare l’emozionante libro su Guido Rossa, lo storico Sergio Luzzatto, genovese, docente nell’Università del Connecticut, mi raccontò che stava lavorando a una storia delle Brigate Rosse. Immane idea, pensai, ancora mai realizzata nonostante molti importanti libri sugli “anni di piombo”. Quando, poi, aggiunse che voleva raccontarla seguendo le tracce della sconosciuta vita di Riccardo Dura, il misterioso capo della colonna genovese, colui che uccise Rossa accasciato nella sua auto in via Fracchia ferito alle gambe da un altro terrorista, decidendo così su due piedi la condanna a morte del sindacalista, pensai che sarebbe stata un’operazione impossibile e molto rischiosa. Dura era stato descritto, raccontato, identificato molto poco e sempre come lo spietato assassino che aveva ucciso l’operaio comunista, l’eroe unanimemente riconosciuto, con una sua fredda e inspiegabile scelta criminale. Sergio Luzzatto aveva da raccontare un personaggio diverso, e per questo, secondo me, era una idea molto molto rischiosa. Diverso perché ignoto alla città che in quei dieci anni di terrore aveva costruito il panorama del brigatismo locale e nazionale. Un brigatismo locale che aveva assunto ahimè un ruolo nazionale, sfiorando addirittura la prigionia di Moro.

Ora il libro è uscito. “Dolore e furore. La storia delle Brigate rosse”, edito da Einaudi. Oltre settecento pagine, con la prima, grande, straordinaria storia dell’organizzazione terroristica, con Genova in prima linea, la solita “città laboratorio” di tutto, come piace spesso scrivere a noi cronisti. Qui sono nate le Br, qui dai movimenti post-resistenziali e anti-golpisti di piazzale Adriatico, qui con i rapimenti per autofinanziarsi, di Sergio Gadolla o di Piero Costa, qui dove hanno “alzato il tiro con l’omicidio del giudice Coco e della sua scorta, qui dove hanno addirittura ucciso un “compagno”. E che compagno! Luzzatto due anni fa ha raccontato Rossa fuori dalla solita narrazione: un comunista convinto, leale, quello che indica e denuncia il compagno di fabbrica che diffonde i volantini brigatisti nei reparti. Ha presentato Guido che scala le vette più difficili sulle Alpi e non solo, coraggioso al limite della spavalderia. Ha ipotizzato che i due colpi di morte potessero essere stati anche una reazione furiosa, magari a una risposta spavalda del ferito, accasciato nella sua 850, ma non vinto.

Oggi lo storico genovese allarga il campo di studio enormemente. Ha ragione Gad Lerner che in quegli anni, fine ’70, inizi ’80 era un giovane cronista del “Lavoro”. Scrive Lerner su “Il Fatto quotidiano”: “Trovo che il libro di Sergio Luzzatto sia un’opera pressoché definitiva”.

E’ davvero definitiva.

Che parte da una lettera dell’ottobre 1970, scritta alla mamma da un ragazzo ventenne, siciliano sradicato, cresciuto a Genova. “Si chiama Riccardo Dura e da qualche mese si trova sotto le armi”. Marinaio. Una lettera di otto pagine di scuse e anche di accuse, perché si sente già un fallito e ritiene la madre possessiva e autoritaria la colpevole di tutto questo. O quasi.

Non ci sono in mezzo discorsi politici. Niente. Ma è l’inizio della storia di una vita rovinata dalla solitudine, dalla violenza del manicomio, dall’internamento sulla nave-scuola Garaventa, fino al 1975 quando “avrebbe saltato il fosso della clandestinità e della lotta armata” e “nel buio di un mattino d’inverno, il 24 gennaio 1979, si sarebbe ritrovato insieme a un compagno dell’organizzazione sovversiva, Vincenzo Guagliardo, in una via del quartiere di Oregina…..deciso a punire un sindacalista della Cgil e militante del Pci, l’operaio Guido Rossa, per avere denunciato un collega dell’Italsider quale distributore in fabbrica di volantini brigatisti”.

L’incredibile storia finirà quando tra i terroristi freddati dagli uomini del generale Dalla Chiesa nell’operazione militare di via Fracchia terroristi che avranno tutti, subito, un nome e un cognome: Anna Maria Ludmann, Lorenzo Betassa, Piero Panciarelli, ce n’è un quarto assolutamente sconosciuto. Il quarto ammazzato no, non ha nome. Quella tremenda foto pubblicata anni dopo dal “Corriere Mercantile” dei quattro cadaveri per terra in mutande e canottiera, rivela solo che il “quarto” è quello in slip, con il volto piegato sul pavimento e i capelli ricci con un colpo secco alla testa. Nessuno lo conosce. Nessuno sa chi sia. Saranno le stesse Brigate Rosse alcuni giorni dopo il blitz a rivelare la sua identità con un linguaggio tra il patetico e il sindacale: è “Roberto” il capo della colonna genovese. Roberto chi? Nessuno sa qualcosa.

Brancolano nel buio gli inquirenti, ma brancolano anche i giornalisti esperti. Ecco che si parla di “Terrorista senza nome”. Il cadavere di “Roberto” “ormai morto da cinque giorni e con i tessuti dilatatati, giace all’obitorio. Nessuno rivendica la sua conoscenza. Poi un compagno lo individuerà. Militava in Lotta Continua “l’aveva incontrato ai cancelli dell’Italsider sette o otto anni prima. Sì, era sicuramente Dura, non poteva essere che Dura, l’operaio marittimo chiamato Roberto nel volantino di cordoglio delle Brigate rosse”.

Anonimo da vivo e anonimo da morto.

Così che Sergio Luzzatto con una bravura unica, raccontando la “vita e la morte di un Anonimo” svela la ampia storia delle Brigate Rosse, partendo dal 1969. Con fatti, luoghi, personaggi. Come il Levante genovese, la città operaia, il D’Oria e il Colombo, il manicomio di Quarto e San Martino. Come i professori universitari di Lettere, o il chirurgo di San Martino o l’avvocato penalista, così vicini alla lotta armata. Promotori, ideatori, fiancheggiatori, arruolatori.

I fondatori insomma della colonna genovese che sarà “consacrata” dal capo assoluto Mario Moretti.

Dietro, in mezzo o davanti c’è Genova. Dieci anni di “gambizzati” neologismo orrendo, volantini, rivendicazioni, morti, poliziotti e carabinieri di scorta cadaveri a fianco dei loro “tutelati”. Tanta politica spesso confusa, i grandi fatti nazionali come il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, processi, pentimenti fatali, irriducibili posizioni, blitz militari mai del tutto chiariti.

Un grande scrittore, Antonio Tabucchi, per anni docente a Genova di Lingua e letteratura portoghese – scrive Luzzatto – è rimasto talmente colpito dalla vicenda del “quarto ucciso” nella strage di via Fracchia da costruirci sopra la trama di un romanzo breve “Il filo dell’orizzonte” che ruota intorno “alla figura di un morto senza nome, un terrorista chiuso in una cella frigorifera dell’obitorio di una città essa pure senza nome, ma che visibilmente è Genova”.

Il giorno della tumulazione al cimitero di Staglieno di Riccardo Dura c’è solo la madre, Celestina Di Leo. “E’ l’alba nel campo comune n.46, fila 20, fossa 24. Il padre ha preferito non esserci”.

Per qualche settimana ancora, in quell’aprile del 1980, la stampa genovese si occupa di Celestina Di Leo. Non l’unica mater dolorosa, nella città insanguinata. Il martedì 22, al mercato rionale di via Anzani a Sampierdarena, una venditrice ambulante è vestita a lutto. Vende camicette, abiti, stoffe. Una donna si avvicina alla sua bancarella. Nota l’abito nero, vede i segni del dolore sul volto della venditrice e le chiede: <Signora , come mai è in lutto? Chi le è mancato? Mio figlio, i carabinieri me l’hanno ammazzato. La donna sussulta, il cuore le batte forte. Anch’io ho perso mio figlio. Era un carabiniere, me l’hanno ammazzato le Brigate rosse. Le due madri disperate si guardano, si abbracciano, si baciano tra le lacrime>. Poi la madre di Mario Tosa, il carabiniere trucidato con Vittorio Battaglini, il 21 novembre in un bar a centro metri da via Anzani deve allontanarsi, non si sente bene, l’emozione è stata troppo forte. Nel banco impietrita rimane Celestina Di Leo Dura. Impietrita e inconsapevole che ad ammazzare il carabiniere era stato suo figlio”. Lo aveva raccontato Anna Pisani sul Decimonono il 23 aprile 1980.

Ha ragione Gad Lerner, “Dolore e furore” è davvero l’opera definitiva che attendevamo.

 

“Non bisogna essere scemi, serve prudenza”. Sono parole del governatore ligure Giovanni Toti. Mi hanno colpito. Soprattutto quella parola, “scemi”. Perché il turpiloquio non gli appartiene. Se ha usato una ‘parolaccia’, è segno che Toti l’ha considerata necessaria, per agire sull’immaginario collettivo.

Faceva riferimento, il presidente di Regione Liguria, alle mareggiate che hanno flagellato il litorale e ai “furbi” che hanno assecondato le loro diverse passioni – dalla mite fotografia al più problematico surf – per cavalcare le onde. Meglio: i cavalloni alti metri. Ha sfidato l’impopolarità, Toti: ma quando ci vuole ci vuole, recita un vecchio adagio.

E in effetti anche di fronte all’immane questione delle piogge battenti e continue, dei venti impetuosi e rafficati, delle mareggiate, del terreno talmente intriso d’acqua da non assorbirne più, la cosiddetta gente non è che abbia sempre avuto dei comportamenti adeguati. Credo di non aver mai lesinato critiche alla politica, però stavolta spezzo una lancia in suo favore.

Da almeno vent’anni, cioè dall’epoca della prima amministrazione regionale di Claudio Burlando (centrosinistra) a quella di oggi guidata da Toti (centrodestra), si sono fatte le cose necessarie. A volte con facilità, a volte con difficoltà, però i ‘tamponi’ sono andati avanti. Certo, siamo passati attraverso alluvioni, vittime e indagini giudiziarie che in qualche circostanza hanno lasciato il segno (vedi il caso dell’ex sindaca Marta Vincenzi a Genova), però complessivamente il sistema ha tenuto. Sempre di più e sempre meglio.

La politica può metterci i denari, le scelte giuste (obbligate, in realtà) e realizzare le opere, tuttavia sono i comportamenti delle persone a fare la reale differenza. Se quando piove a dirotto e magari vai a vedere che cosa succede nello scantinato, hai voglia a compiere certi interventi di prevenzione. Oppure se ti fermi a fotografare una mareggiata, o peggio pensi di approfittare altrimenti del moto ondoso così particolare, non c’è divieto che tenga. 

Guardate che è esattamente come quando si grida alla città sporca e poi scopri che ci sono persone che lasciano dove capita il sacchetto della rumenta, oppure gettano per terra i mozziconi di sigarette, gli scontrini del bar o del supermercato, cartacce varie e bottigliette di ogni foggia e materiale. E’ colpa delle aziende pagate dal Comune che non tengono abbastanza pulito o anche tua che sporchi ad ogni pie’ sospinto e ad ogni ora?

Vale ad ogni latitudine e con il maltempo è la stessa storia. Ovvio, servono una informazione adeguata (certo non si possono muovere appunti a Primocanale, con le sue dirette) e decisioni lungimiranti della politica. Ma poi ognuno di noi, nel proprio piccolo, deve fare il suo. John Fitzgerald Kennedy, il 35° presidente degli Usa, nel suo discorso di insediamento ebbe a dire: “Non chiedete che cosa può fare il vostro Paese per voi, chiedete che cosa potete fare voi per il vostro Paese”. Credo non serva aggiungere altro. Anzi, una cosa sì: bisogna saper fare squadra. Proprio la Regione Liguria ha dimostrato che di fronte a certi eventi o si ha questo atteggiamento non si va da nessuna parte. 

 

Ma il punto resta quello dei comportamenti individuali. Non conosco la storia della parte di Toscana duramente colpita nei giorni scorsi dall’alluvione. Avendo letto le cronache, tuttavia, sono sicuro che almeno qualcuna delle morti poteva essere evitata se ci fosse stata maggiore prudenza. Inoltre, nei momenti di emergenza non servono le polemiche: prima fronteggiamo la situazione, poi vediamo se qualcuno ne ha la colpa e quale possa essere. Avendo sempre cura, tuttavia, di non indulgere nella faziosità.

 

Sempre in Toscana c’è un sindaco, quello di Firenze, Dario Nardella, al quale nessuno può dare del ‘negazionista’ se si parla di cambiamenti climatici. Ma al contrario di tanti ideologi del centrosinistra, votati a una filosofia del puro bla bla, ha fatto le cosiddette vasche di espansione e quant’altro occorrente. Un po’ come gli scolmatori genovesi. Il che dimostra quanto sull’argomento non c’entrino per niente le fazioni politiche, bensì solo il buon senso. La politica deve mettercelo, non c’è dubbio. Ma anche i cittadini. Senza scomodare JFK, basta rifarsi all’appello di Toti: non facciamo gli scemi.    

Cosa ci aspettiamo tutti, vecchi e nuovi osservatori,  davanti alle prossime elezioni regionali del lontano, ma anche molto vicino, anno 2025? Ovviamente di assistere finalmente a un bel duello tra centro destra e centro sinistra, o come cavolo li chiameremo in quel momento.
Garanzia essenziale per questa disfida è che il centro sinistra, dopo quasi un decennio di enormi difficoltà a candidare personaggi “sfidanti” alle elezioni amministrative locali, trovi per tempo il nome giusto.
Citiamo il centro sinistra perché dall’altro lato della contesa il centro destra parte già dalla sicurezza di un vento favorevole, che scenda in campo per la terza volta Giovanni Toti, come sembra quasi certo, sia che ci sia un rinnovamento. E qual è la prima mossa del Pd, capace in questi anni di sbagliare sempre e in certi casi anche clamorosamente, come nelle ultime regionali, il personaggio giusto, andando incontro a sconfitte epocali per il trono di piazza De Ferrari, ma anche per quello di palazzo Tursi?


Alla prima indiscrezione pubblicata dai giornali su una possibile candidata, nella persona della giovane Vittoria Gozzi, la figlia di Tonino, una trentenne già molto impegnata non solo nelle aziende di famiglia, Whylab e Duferco, ed anche vicepresidente di Confindustria Genova, è arrivata subito la secchiata gelida del nuovo segretario regionale ligure del Pd, Davide Natale.
Troppo presto parlare di nomi e chi lo fa vuole solo bruciare l’ipotetica candidata, avremo l’imbarazzo della scelta nello scegliere il nostro candidato - commenta il nuovo papavero democratico, lasciando immaginare legioni di pretendenti al ruolo.


Davide Natale, come i suoi predecessori e come l’entourage del Pd locale, teme che quel nome, uscito dal cilindro delle indiscrezioni, sposti troppo a destra, verso un fronte moderato l’asse sbilenco dei democratici di oggi, anno 2023, era Schlein. Sono infatti note le propensioni della famiglia Gozzi per l’Italia Viva di Renzi e la sua collocazione molto al centro, malgrado le radici socialiste del capostipite, Tonino Gozzi, l'ultimo segretario regionale del PSI, prima di buttarsi nella sua splendida carriera di imprenditore.
E tra questa indicazione e la mini scissione verso Calenda di Pippo Rossetti, antico candidato rimasto in pectore per De Ferrari e Tursi per il Pd, e dei suoi 33 amici, il timore è che la cavalcata delle indiscrezioni, appena cominciata, accrediti scelte, appunto più centriste, piuttosto che verso una sinistra regolarmente perdente negli ultimi lustri genovesi e liguri, salvo il caso di Savona.


Non sappiamo se Vittoria Gozzi sia veramente in lizza, se il suo nome sia una provocazione di qualcuno o una intenzione autentica, ma oggi non è questo il problema.
Il problema è l’incapacità del Pd di prepararsi per tempo alle elezioni, riducendosi sempre all’ultimo momento per non trovare nessuno e obbligare qualche vittima sacrificale a immolarsi contro la Destra trionfante.
Per preparare una candidatura forte, capace di vincere in Liguria, dopo il lungo regno di Toti, ci vuole tempo e un grande lavoro sul territorio. Due anni sono appena sufficienti, dopo la sequenza di sberle prese dai democratici in ogni tipo di elezione, comprese anche le politiche, dove i leader, oramai scaduti come la mozzarella, quali Andrea Orlando e Roberta Pinotti (in realtà già fuori dalla scena per sua decisione), hanno dovuto farsi candidare fuori dalle mura per restare in Parlamento.


E invece no, i rinnovati vertici pd continuano a traccheggiare, come hanno fatto nel 2020 in Regione o nel 2017 e nel 2022 in Comune, salvo poi supplicare all’ultimo Gianni Crivello e Ariel Dello Strologo a accettare l’investitura.
Ovviamente alla doccia gelata del segretario Pd hanno subito fatto eco i Cinquestelle, pronti a precisare che “qui ci vogliono candidati politici e non civici”, come sarebbe innegabilmente la suddetta Vittoria Gozzi.
E ci mancherebbe altro! I civici precedenti hanno perso, invece il politico che si sceglierà, magari tre mesi prima del voto, quello è sicuramente candidato a vincere. L'importante è non scegliere, per ora... Tanto un programma vittorioso, con tutti i problemi che ha la Liguria oggi, dal suo catastrofico isolamento, al suo futuro industriale dall'Ilva in su, alla sanità pubblica oramai ai piedi di Cristo, che ci vuole? O meglio “chi” ci vuole?