Il cartellone del teatro Carlo Felice, quest’anno è stato più ricco di scioperi che di opere. Il teatro ora è di fronte a un vero disastro anche perché sopravvive solo grazie ai fondi nazionali e alle abbondanti sovvenzioni che gli arrivano da enti locali, fondazioni e qualche rarissima azienda privata. La cultura costa e un Paese (e una città) deve decidere se può permettersela o no. Stila una scaletta di priorità, le mette in ordine di importanza sociale e decide. Nel primo dopoguerra la politica stabilì che era più giusto rimettere in piedi ospedali e scuole distrutte prima di ricostruire il teatro sventrato dai bombardamenti. Poi, negli anni ’90 furono trovati i miliardi per la ricostruzione e il teatro riaprì tra fasti, gioie e speranze. E l’indispensabile aiuto (undici miliardi di allora) di Riccardo Garrone.
Purtroppo presto le speranze cominciarono a vacillare. Scioperi, sovrintendenti contestati, prime annullate, liti, incredibili battaglie corporative hanno rapidamente rigettato il teatro negli anni più bui. Oggi la città si deve chiedere ancora una volta se può mantenere questo lusso, un lusso enorme, goduto in percentuale da pochi, contestato all’interno da cori, orchestrali, dipendenti, addirittura da un direttore d’orchestra. Provate a chiedere a chi ci lavora dentro quanto costa tutte le mattine aprire i portoni del monumentale edificio e accendere le luci. Qualunque massaia in casa sua, chiuderebbe tutto e se ne andrebbe. Che tristezza per Genova, che delusione. Che esemplare prova di incapacità politica, sindacale e amministrativa.
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