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Stamattina l'ex presidente della Banca Europea riceve l'incarico da Mattarella
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 Si torna ai tecnici. Mattarella, uomo dell'ultima prima Repubblica, prende atto del crollo dell'antipolitica fattasi politica, restaura quel che nei Palazzi resta del senso delle istituzioni e riapre la porta all'idea ottocentesca del “governo dei migliori”.

Mario Draghi, incaricato di guidare un esecutivo di unità nazionale che - sotto la minaccia dello scioglimento e quindi della mancata rielezione di molti parlamentari - vedrà l'appoggio di gran parte dell'ex maggioranza corroborata dall'ingresso di Forza Italia e dall'appoggio esterno leghista, stamattina riceve dal capo dello Stato il compito di richiamare alla disciplina un Parlamento che ha sublimato, nella velleità inconsapevole del dilettantismo, il fallimento di un'idea ottimistica della politica abbinata alla superstizione della democrazia rappresentativa, dogma novecentesco che ormai si incaglia in se stesso perché la gente spesso sceglie non il meglio, ma quel che meglio la abbagli o la incanti o la ricompensi. Ma poi, che cosa è il meglio? E chi lo stabilisce?

Difficile che Draghi - chiamato in causa per un incarico di governo “di alto profilo che non si identifichi in alcuna forza politica”, missione che sottende la chiara designazione al Colle tra un anno esatto, quando scadrà il mandato di Mattarella - possa intestarsi un mandato intessuto di mercanteggiamenti levantini. Dopo essersi deciso a mettere in gioco il proprio nome, invocato da almeno una decina d'anni con accenti messianici, l'ex banchiere italiano ed europeo non potrebbe acconciarsi al rango di sensale al mercato dei Ciampolillo, oppure accettare di sedere al tavolo circolare di Palazzo Chigi con figure e figurine ormai ridotte a macchietta, per bulimia di potere o incompetenza conclamata. La lista dei ministri farà da cartina di tornasole della sua autorevolezza e intransigenza, ma un uomo così accorto quale ha dimostrato di essere non è stato certo colto di sorpresa dalla convocazione al Colle e ha già sicuramente pronti i nomi. Tanto più che può contare in partenza su consensi non scontati: Berlusconi da primo ministro lo designò a Palazzo Koch, Renzi è stato il più assiduo a farne il nome, al pari di Toti che lo ha paragonato a Messi o Ronaldo, perfino la Lega tendenza Giorgetti lo ha caldeggiato.
Il Pd, che elesse Mattarella a costo di infrangere l'accordo pregresso con l'opposizione, non può certo sconfessare la scelta di un “suo” presidente. Contro Draghi potrebbero trovarsi parte dei pentastellati e i meloniani.

I tecnici riportano in auge l'idea che pochi eletti, non però nel senso di votati, possano decidere per tutti. Soltanto in Italia è così massiccio e ricorrente in politica la cooptazione emergenziale di estranei: hanno guidato il governo banchieri come Ciampi e Dini, costituzionalisti come Amato, economisti come Monti, fino a un oscuro signor nessuno scelto proprio perché tale, naturalmente sfuggito in breve ai suoi apprendisti stregoni. Perché la politica si auto-commissaria così spesso? Forse perché a farla, appunto, non sono i migliori?

Si ritorna ai tecnici, dopo che la decimazione di una classe politica aveva riempito il vuoto prima con le escogitazioni di un impresario e poi con i vaff*** di un comico. L'orizzonte è comunque quello di un'Italia sotto stretta sorveglianza europea, dagli angusti margini di manovra economici e quindi politici. Non è Draghi il primo romano ad arrivare alla presidenza del consiglio: soltanto negli ultimi trent'anni prima che a lui toccò infatti a Gentiloni D'Alema e Andreotti. Ma è il primo romano che ci arriva passando da Francoforte.