cronaca

Il “Racconto di Genova”. In cento metri fu ricostruita la cultura della città /8
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Con le riprese del Racconto di Genova (prossimamente a puntate su Primocanale) siamo scivolati da Circonvallazione in pieno centro città. Tra via Bacigalupo e piazza Marsala. Questo è stato il regno di Ivo Chiesa che ha inventato il Teatro Stabile di Genova. Lungo questi cento metri, tra le due sale Politeama Genovese e Duse e la follia seriamente ribelle del Teatrino di Piazza Marsala dal 1955, è stata ricostruita una buona parte della cultura italiana del dopoguerra.

Dico e ripeto: italiana e non genovese. E potrei allargarmi e parlare di cultura internazionale. Lungo questi cento metri sono passati Luigi Squarzina e Carlo Repetti, Marco Sciaccaluga e Lina Volonghi, Alberto Lionello e Luca Ronconi, Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer, Gigi Proietti e Mariangela Melato, Ferruccio De Ceresa e Elsa Albani con Alberto Lupo, Eros Pagni e Omero Antonutti. L’elenco è lunghissimo. Mi fermo e chiedo scusa a chi non ho ricordato.

Ivo il 22 dicembre compirebbe cent’anni essendo un ragazzo del ’20, anno d’acciaio e il Teatro Nazionale di Davide Livermore istituisce e assegna un premio nel suo nome. Scelta giustissima. Senza il lavoro meticoloso e provocatorio di Chiesa non ci sarebbe stato nulla di tutto questo. Nel 1954 era un giovane manager del teatro privato che aveva messo su una compagnia con Brignone, Santuccio, Salerno e Mauri, quando l’amico genovese Pino Gualco che era nel consiglio dello Stabile fondato pochi anni prima da Gian Maria Guglielmino e Nino Furia, lo chiamò. Lo volle come direttore e da quell’anno Chiesa costruì un teatro che diventò l’anima culturale della città, amato e odiato, esaltato e criticato.

“Allora scrivevo commedie mediocri – mi raccontò un giorno Ivo – che curiosamente vincevano dei premi. Ero fuggito da Genova dopo gli studi, prima al liceo Doria e quando fui bocciato mia madre mi mandò dal professor Moraglia, un nostro lontano parente, specializzato nell’infilarti in testa tutto quello che serviva per essere promosso alla maturità. Puntualmente lo fui. A Milano incontrai Valentino Bompiani. Su Sipario avevamo pubblicato in maniera molto impropria Le mosche di Sartre senza averne i diritti che erano proprio di Bompiani. Gli parlai della mia passione per il teatro, speravo che mi perdonasse. Gli offrii la rivista che era agli sgoccioli e lui accettò”.
Quarantacinque anni di battaglie, di straordinari successi, di grandi registi e grandi attori che agognavano di venire a calcare le tavole dei palcoscenici del Genovese e del Duse disegnati e colorati di rosso fuoco da quel genio del buon gusto che era Marco Lavarello.

Noi ragazzi di Legge, che andavamo a studiare in via Bacigalupo 4, nello studio di un maestro del diritto marittimo, Ugo Maresca, noi che sulla scale incontravamo il nostro professore di Scienze delle Finanze, Victor Uckmar mago del diritto tributario , che faceva lezione inesorabilmente alle 8.30 del mattino, sempre puntualissimo, elegantissimo, colto e che, incontrandoci sulle scale, ci annunciava che di lì a poco ci avrebbe interrogati…ebbene vedevamo gli attori entrare nell’ufficio di Ivo. L’ indimenticabile Lina di Madre Coraggio, gli attori della Compagnia dei Giovani. Poi gli anni del teatro storico scritti con Vico Faggi drammaturgo e magistrato con I cinque giorni al porto, Lionello nella Coscienza di Zeno, Buazzelli e Mauri di Bouvard e Pecuchet, Camillo Milli con Pagni nella serie goldoniana. Li trovavamo anche al bar sulla strada, nelle pause delle prove, insieme allo scenografo “stabilissimo” Gianfranco Padovani.
Era un teatro che faceva discutere, litigare sui giornali e nelle case, come quando fu messo in scena Troilo e Cressida con Gastone Moschin e Marzia Ubaldi, uno Shakespeare in abiti moderni, in divisa da marines o in giubba maoista.

Poi il caso Sartre con Il diavolo e il buon Dio. “Ci difese il sindaco democristiano Pertusio e addirittura il cardinal Siri – mi raccontò Chiesa – Ero stato suo allievo al Doria. Gli chiesi un appuntamento e gli raccontai quello che stava succedendo. Stette ad ascoltarmi senza dire una parola, poi al momento del commiato, sibilò: venga questa sera alla riunione degli imprenditori cattolici. Ci andai. Ero intimorito, mi nascosi in fondo alla sala. Il cardinale tenne la sua relazione e alla fine sentenziò. Il nostro teatro sta rappresentando un testo di Sartre. E’ un esistenzialista e tra noi e l’esistenzialismo scorre un fiume immenso. Però sono pensatori, persone di grande qualità, dobbiamo combatterli, ma non insultarli”. La polemica si spense.

E ci furono Dopo la caduta di Miller e Emmetì di Squarzina con la parafrasi del Padrenostro: “Merce nostra che sei in terra…”. Il testo di Miller aveva scatenato le ire della Democrazia Cristiana che fondava la sua protesta su un assioma: si trattava di un’involuzione della drammaturgia di Miller che aveva avuto sonore stroncature in Inghilterra. L’argomento (la morte della celebre attrice Marilyn Monroe) sarebbe stato solo “idoneo a stimolare una discutibile curiosità intorno a una triste vicenda di cronaca”. La Dc con un ordine del giorno in consiglio comunale chiede che siano rivisti i rapporti tra Comune e Teatro. Insomma fa intravvedere minacce di tagli di contributi. Tutto finisce.
Su Emmetì, invece, si abbatte una vera censura per colpa della preghiera modificata. E’ il quotidiano cattolico Il Cittadino che stronca a ripetizione per mano del suo direttore monsignor Luigi Andrianopoli, penna pungentissima , il lavoro. Ci sarà un processo per vilipendio che si conclude con la piena assoluzione di Chiesa, Squarzina e dell’attore principale Ivo Garrani.

Il Teatrino di Piazza Marsala era un misto tra cabaret e avanguardia, che aprì il 17 novembre del 1966, con un palcoscenico piccolissimo sul quale vidi nei panni di una Nemica di Dario Nicodemi super-tragica un ineguagliabile Paolo Poli. Teo e l’acceleratore della storia di Giuliana Manganelli, le serate di canzoni raffinate con Milly, ma anche Carmelo Bene, Paolo Villaggio, Giustino Durano o Edoardo Sanguineti. E Ivo sempre a controllare, in un angolo, tutte le sere, scrutando i volti degli spettatori. I “suoi” spettatori. Soddisfatti o no?
Ivo Chiesa entrò anche nel dibattito sulla ricostruzione del teatro Carlo Felice con una proposta che, se fosse stata seguita, avrebbe forse evitato molti successivi problemi finanziari e di gestione. Chiesa ipotizzò due sale, una più grande per la lirica e una per la prosa e la divisione dei costi di gestione. Ma l’idea non ebbe seguito.

Non smise mai di pensare al suo teatro. “E’ stato un modo di vivere assieme – mi confessò – come se fosse una famiglia, con un forte senso di appartenenza, senza burocrazia…”. “Ivo ha ragione – scrisse un giorno Omero Antonutti a Carlo Repetti – a considerare il suo teatro una famiglia. Sono stato un figlio un po’ discolo e indisciplinato, ma alla fine ho appreso e imparato tanto. Gli devo molto. Ringrazialo. E digli che gli ho voluto molto bene. Non avrei mai avuto il coraggio di dirglielo a voce”.

Insegnò il mestiere a Carlo Repetti che se ne è andato pochi giorni fa. La decisione di lasciargli la direzione fu anche una sua scelta intelligente: lasciare un erede sicuro, fidato e sobrio come le cose genovesi. La sobrietà genovese che Renzo Piano ricorda in ogni occasione…..
Ivo é’ mancato nell’estate del 2003. La sera prima di spirare aveva parlato al telefono, con un filo di voce, proprio con Carlo che era a Mosca con la compagnia stabile. Voleva solo sapere come era andato lo spettacolo. Nient’altro.