"Faccia le valige e vada a cercare aziende che investano su Genova". L'esortazione al neosindaco Marco Bucci arriva dal segretario della Cisl genovese Luca Maestripieri. Ed è una buona esortazione, peraltro nel solco di un impegno in tal senso che il nuovo primo cittadino ha preso durante la campagna elettorale.
Al momento, per la verità, più che vederlo in viaggio lo si è visto nei panni di ospitante: insieme con il governatore ligure Giovanni Toti ha incontrato arabi e cinesi, poi ha visto i britannici e infine - in ordine di tempo - il commissario straordinario dell'Ilva, apripista della cordata internazionale ArcelorMittal, nuova proprietaria del colosso siderurgico.
Non si può dire che Bucci e Toti pecchino di di pigrizia. L'idea di portare degli investitori esterni, italiani o stranieri che siano, a Genova ce l'hanno eccome e si stanno sbattendo per centrare questo obiettivo. È un genere di affari complicato, però, sul quale sarà bene intendersi subito e su cui gli stessi Bucci e Toti faranno bene a farsi capire senza equivoci.
Loro, infatti, sul tavolo possono mettere non molto: qualche sgravio sulla fiscalità locale, un po' di sburocratizzazione sulle pratiche di competenza di Comune e Regione, delle agevolazioni quando di mezzo ci saranno eventualmente delle autorizzazioni anche di tipo edilizio o legate all'utilizzo-destinazione degli spazi. Secondo promesse, Bucci comincerà presto, Toti ha già cominciato.
Non è molto, ma neppure poco, soprattutto se paragonato ai parametri di altre non meno importanti città italiane. Poi, certo, il neosindaco è il governatore possono calare l'asso di una città e di una regione senza eguali per bellezze naturali e architettoniche, mitezza del clima e qualità della vita (quella non conteggiata anche con la qualità di certi servizi principalmente pubblici...).
Ma tutto ciò può davvero bastare per spingere delle imprese forestiere a scommettere su Genova? L'interrogativo non è ozioso e non c'entra niente con l'abitudine tutta nostrana di indulgere al mugugno o di vedere il bicchiere mezzo vuoto anche quando altri si sbattono per cercare di riempirlo. Qui si tratta solo di fare un sano esercizio di realismo e di stare attenti a non creare aspettative che poi potrebbero andare deluse.
Che Bucci e Toti ci provino e nel farlo si espongano anche, inseguendo un po' di legittimo consenso, è comprensibile. Ma siano accorti nel chiarire che di scontato non c'è assolutamente niente. Perché al di là di ciò che potranno offrire di proprio ai loro interlocutori, resta un fatto: qui si tratta di cercare a trovare chi sia disposto a mettere dei soldi per investire in un Paese, di cui Genova e la Liguria fanno parte, ancora assolutamente ingessato. Avvitato nelle sue disfunzioni.
L'Italia resta il luogo dove per aprire una pizzeria, come racconta un libro-esperienza di successo, ci vogliono sessanta (!) autorizzazioni, dove la giustizia civile non dà alcuna garanzia di celerità e certezza della sentenza, dove la burocrazia statale non vuol fare neppure un passo indietro ed è immancabilmente pronta a prenderti alla giugulare, dove il sistema fiscale non solo è opprimente, è pure talmente bizantino da darti torto anche quando avresti ragione.
Insomma, a fronte delle condizioni di favore che Bucci e Toti possono creare per chiamare a Genova e in Liguria degli investitori (sembrano lontanissimi i tempi in cui il sindaco Marco Doria, sostenuto dal Pd, scriveva agli sceicchi della Piaggio sbertucciandoli...), esiste uno scenario nazionale che rema decisamente contro. Allora deve essere chiaro: provarci è un obbligo, considerando le condizioni il cui versano la regione e il suo capoluogo, ma riuscirci è tutto un altro paio di maniche.
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Genova cerca investitori ma pesa il sistema-Italia
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