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Celebrare la Festa dei Lavoratori in un Paese dove il lavoro non c’è. E i lavoratori sono senza lavoro. Accade anche questo all’Italia, che sembra ormai assuefatta all’idea di essere una grande Fiera dell’Assurdo. Tanto da tagliare il nastro di una, Expo 2015 a Milano, senza che l’allestimento sia completato, come si converrebbe a qualsiasi, normale rassegna. Ma funziona così. Anzi, non funziona per niente.

Eppure si va avanti come se nulla fosse. Se le statistiche dell’Istat e il sentimento comune, oltre alla percezione concreta della situazione, dicono che la principale emergenza è giustappunto quella occupazionale, che cosa ci si aspetterebbe da un governo normale in un Paese normale? Che sia concentrato a fronteggiare e risolvere questa emergenza. Macché.

In questa meravigliosa Penisola, il premier tiene in ostaggio il Parlamento, che si divide e manda in scena spettacoli a volte inverecondi, sulla legge elettorale. Italicum, si chiama, scomodando ancora la vivissima lingua latina dopo averla scomodata per bollare il sistema tuttora in vigore (ma bocciato dalla Corte Costituzionale) con l’appellativo Porcellum.

Tutto nei giorni e nelle ore di vigilia del Primo Maggio, la Festa dei Lavoratori. La rogna dell’occupazione Matteo Renzi ritiene di averla debellata con il Jobs Act, una “roba” concepita cancellando l’Articolo 18 per i nuovi assunti e favorendo la stabilizzazione dei precari con contratti a tempo indeterminato grazie alla regalia di sgravi fiscali. Solo che questa "roba“ ha una scadenza come lo yogurt: tre anni. E poi? Poi potremmo trovarci di fronte a una bolla speculativa sul lavoro come quelle su derivati e mercato immobiliare che hanno prodotto la più grande e duratura crisi economica occidentale. Perché tutti i lavoratori stabilizzati con il Jobs Act saranno liberamente licenziabili. E chi s'è visto s’è visto.

Forse è vero che, comunque, era ed è giusto provarci. Ma non è giusto dopo qualche settimana cominciare a suonare la grancassa del successo, com’è avvenuto, perché una legge simile richiede tempo prima di dispiegare i suoi frutti, si spera, migliori. Difatti l’Istat ci ha sbattuto in faccia, appena ieri, l’amara realtà: la disoccupazione è di nuovo al massimo storico del 13% e se parliamo di quella giovanile la percentuale sale al 43!

E’ in tale contesto che Renzi dice di avere bisogno dell’Italicum subito per poter mettere mano alle riforme che devono portare una crescita del Pil  senza che nessuno si metta di traverso. Vuole più potere per fare le cose che servono. Il dubbio di poterle fare in modo condiviso, proprio a partire dalle regole del gioco, non lo sfiora, perché mostra la più profonda disistima dei parlamentari ed ha una pienezza di sé tipica dell’ego ipertrofico. In pratica dice: o fate come dico io o si va tutti a casa. E le elezioni anticipate sono possibili più facilmente, con l’esito precostituito della vittoria di Renzi e del “suo” Pd, grazie proprio all’Italicum.

La logica è in effetti quella dell’uomo solo al comando. Che di per sé non costituisce deriva autoritaria, essendoci fior di democrazie basate su questo modello. Solo che lì, penso a Stati Uniti e Francia, c’è il necessario contrappeso dei poteri e soprattutto c’è chiarezza. In Italia no, si pasticcia con regole, anche costituzionali, che andrebbero maneggiate con ben altra cura e si finisce nel gorgo di un caos dal quale emerge solo l’ansia di potere di Renzi e dei renziani.

Mi è capitato di leggere, tanto per dire, il disegno di legge di riforma della Rai. Si riordina la governance e vi si parla del servizio pubblico di informazione. Sapete a chi sta in capo il controllo totale delle scelte da fare? Al consiglio dei ministri, che Renzi immagina di guidare ancora. C’è una tale sfrontatezza, che si prevede anche una delega al governo per fare queste cose. Di più.

Un capitolo riguarda il finanziamento pubblico della Rai per lo svolgimento del servizio pubblico di informazione, come se stesse scolpito sulla pietra che il contratto, in scadenza il prossimo anno, debba essere affidato a Viale Mazzini. Neppure l’eleganza di una forma che preveda regole generali alle quali poi si adegui chi svolgerà il servizio pubblico. Che magari sarà la Rai. Ma vivaddio, potrebbe anche non esserlo.

Anche, qui, invece, si coglie solo l’ansia del governo di mettere le mani su Viale Mazzini, per garantirsi un’informazione amica visto che in giro ce n’è tanta ostile (ma dove, ma chi?). A corredo di questo disegno c’è quello del sindacato dei giornalisti Rai che sbeffeggia l’emittenza locale (“altro che collaborare”) e fa quadrato intorno alle antiche posizioni, ai vecchi privilegi, ai tre Tg, alle sedi intangibili (“altro che accorpamenti”). L’obiettivo dichiarato di tutti è buttar fuori la politica dalla Rai. Naturalmente a parte la propria di (congrega) politica.

Gli altri, i giornalisti, i tipografi, i tecnici delle emittenti regionali, dei quotidiani, dei periodici vadano pure ad annegarsi e continuino ad arrabattarsi fra contratti di solidarietà e cassa integrazione, con chiusure incombenti. Non sono pure questi lavoratori che andrebbero tutelati? Non è pure questo un mondo del lavoro che bisognerebbe far crescere per migliorare il rendiconto generale dell’occupazione?

Lo è altrettanto la galassia delle piccole, medie e grandi aziende che, invece, continuano a chiudere i battenti o a preparare piani – di ristrutturazione, si chiamano – il cui esito è puntualmente quello di individuare centinaia, migliaia di esuberi. Gente che a 45, 50 e 55 anni si trova senza un lavoro e con chance limitate o nulle di rientrare nel circuito occupazionale. Perché mancano una politica industriale degna di questo nome (dopo tanto rigorismo, ora persino l’Ue se n’è accorta e sta chiedendo ai Paesi membri di dotarsene) e un welfare che vada oltre l’attuale recinto di tutele, che in molti casi non tutelano un bel niente.
 
Ne sa qualcosa la Liguria, che è fra le regioni del Nord per collocazione geografica, ma ha indicatori economici da profondo Sud. Senza poter godere degli aiuti che vengono riconosciuti alle aree più affannate del Paese. Insomma, qui la festa ce la stanno facendo. E c’è ben poco da celebrare. Comunque, buon Primo Maggio.