Porto e trasporti

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GENOVA - Abolire le concessioni e privatizzare i porti italiani: è questa la ‘provocazione’, ma forse nemmeno tanto, di Guido Ottolenghi, amministratore delegato del gruppo Pir e presidente del gruppo tecnico Logistica e Trasporti di Confindustria. Il manager è intervenuto al convegno ‘Progetto mare, la competitività dell’economia del mare in una prospettiva di sviluppo del Paese e di autonomia strategica europea’.

"Il regime delle concessioni – spiega Ottolenghi – affonda le sue radici negli antichi porti dove non si svolgevano attività così vaste e complesse come quelle di oggi e dove non vi erano insediamenti di magazzinaggio o lavorazione industriale così imponenti. La concessione consentiva all’autorità di gestire i pochi spazi in modo efficiente, o almeno allineato agli obiettivi del potere locale".

Una condizione che oggi è profondamente cambiata e, nell’attesa di un regolamento che favorisca la competizione, Ottolenghi propone una soluzione molto più radicale: "Mi chiedo – è la domanda che l’imprenditore propone nel convegno - come funzionerebbe la portualità se invece delle concessioni passassimo a un sistema di piena proprietà. Forse abolire le concessioni e gran parte del demanio nei porti favorirebbe la competitività, moralizzerebbe la vita portuale, porterebbe vasti vantaggi alla collettività e ingenererebbe un esercizio più sereno e lungimirante del potere di indirizzo delle autorità coinvolte".

Ottolenghi precisa che questa è una sua posizione personale e non dell’intera Confindustria ma è dell’avviso che la stessa sarebbe meritevole di un approfondimento: "Magari tra 5 o 10 anni si potrà giungere a qualche esperimento concreto e illuminante. In alcuni porti Italiani e in molti porti del nord Europa vi sono già ora terminal che sono proprietari delle aree (in Inghilterra con atti di 99 anni), e hanno in concessione la sola banchina o pontile attraverso cui la loro attività si connette al mare. È un po’ come il modello di una città, dove le vie e i marciapiedi sono mantenuti dall’autorità pubblica, e le attività retrostanti pagano una tassa. Ciò non priva l’autorità del suo ruolo programmatorio, e non esclude nei casi limite l’esproprio per pubblica utilità, ma permette all’impresa una programmazione più serena e un più sano accesso al credito”.

Del resto, secondo Ottolenghi, già oggi la concessione somiglia a un sistema feudale ereditario, nel quale in teoria il feudatario è destinato a lasciare il suo possesso entro un tempo prestabilito ma nella realtà non va mai via, né l’autorità che concede il diritto, in questo caso le Autorità portuali, ha la forza per poterle realmente revocare.

Vi è inoltre un tema meramente economico, legato alla proprietà: “Anche gli imprenditori naturalmente sbagliano, ma quando devi pagare l’area e costruirci sopra a tue spese, pensi molto di più e meglio alla bontà dell’investimento, di quando è il pubblico che ti dà l’area e magari ti fa anche l’investimento”.

Guido Ottolenghi ha in mente anche la modalità che potrebbe essere messa in campo per privatizzare i porti: “Sdemanializzare e mettere all’asta (anche facendo sperimentazioni limitate) le aree portuali ora in concessione, prevedendo un prezzo minimo congruo ad esempio 200€/mq per i porti maggiori e 100€/mq per quelli minori. Se vince il concessionario attuale continuerà la sua attività da proprietario, avendoci messo soldi suoi. Se vince un terzo, bisognerà riconoscere una prelazione o un indennizzo basato sul valore dell’avviamento al concessionario che lascia. Se nessuno offre per quel lotto, lo potrà comprare un fondo di investimenti o la Cassa Depositi e Prestiti, trasformando la concessione in affitto regolato da contratti privatistici e con un rendimento minimo adeguato (ad esempio il 5% indicizzato). Lo Stato incasserebbe cifre ingenti, la Cassa Depositi e Prestiti avrebbe buona redditività sul risparmio che raccoglie, i terminalisti che lo desiderano diventerebbero proprietari e quelli che vogliono diventare nuovi terminalisti dovrebbero fare meno conto sulla generosità pubblica e più sui loro capitali. Ciò favorirebbe di più quelli che hanno conquistato la fiducia degli investitori rispetto a quelli che hanno conquistato la fiducia dei potenti”.

Guido Ottolenghi è consapevole che la sua proposta potrà sembrare strana, o sbagliata, ma ritiene che valga la pena provarci.

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