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Il testo organico redatto 91 anni fa dal giurista Alfredo Rocco contiene misure che il discusso ddl ripeteva soltanto
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 È stato preso per una bandiera, invece era un disegno di legge. Così moltissimi lo hanno sventolato, anche a Genova, ma quasi nessuno lo ha letto nei dettagli. Lo stadio, si sa, è più facile che lo studio. Perché estratto dall'asta, disteso e letto riga per riga, il ddl Zan non solo non concedeva diritti, ripetendo tutt'al più norme già esistenti, ma addirittura rischiava di comprimere, se non di togliere o perfino trasformare in reato, qualche diritto di rango costituzionale.

Serve una premessa. Non è vero che in Italia sia permesso insultare, diffamare, minacciare, picchiare, ammazzare una persona in ragione del suo orientamento sessuale; quindi è falso che la legge Zan avrebbe punito tali violenze mirate finora immuni da sanzione penale.

Intendiamoci. Se davvero fosse stata respinta (perché usare ossessivamente “affossata”? I senatori sono becchini?) una proposta di legge che avrebbe finalmente condannato chi insulta, diffama, minaccia, picchia, uccide le persone per via delle loro preferenze sessuali, tutti atti finora leciti per assenza di una legge penale specifica, le reazioni di piazza sarebbero state sacrosante.

Ma la realtà è diversa. Era ed è rimasto vietato far del male agli altri, quali che sia il loro stile di vita. Quella legge così era in parte superflua e in parte pericolosa. Bastava leggerla.

Perché superflua? Perché una legge che punisce chi fa del male a qualcun altro per via delle preferenze intime c'è già. E c'è dal 1930. Dal 19 ottobre 1930.

Si chiama "codice penale". Lo firmò Alfredo Rocco (nella foto) sulla base del lavoro di Vincenzo Manzini, che è stato un gigante della scienza giuridica e infatti ha costruito un testo talmente ben fatto nella parte generale (Libro I, titoli I-VIII, "Dei reati in generale") che nessuno ha mai pensato a toccarla, malgrado il codice fosse stato redatto e promulgato sotto il fascismo e lo stesso Rocco fosse il Guardasigilli di Mussolini. I due professori avevano scritto anche il codice di procedura penale, quello però abbandonato nel 1988 a favore del nuovo testo Vassalli-Pisapia, secondo molti operatori cambiando in peggio, ma non allarghiamo l'ambito del discorso.

Il codice penale del 1930, per quanto ovviamente sottoposto a molte modifiche in 91 anni, nei suoi principi generali tuttora vigenti contiene tutto quello che serve, prima a un magistrato inquirente per mandare a processo e poi a un magistrato giudicante per condannare chiunque abbia fatto del male a qualcun altro per via degli orientamenti sessuali della persona offesa.

Il ddl Zan era superfluo perché tutta ma proprio tutta la sua raffica di aggravanti e aggiunte agli articoli del codice Rocco, dirette a stabilire un aumento di pena nelle condanne per reati fondati sulla personalità sessuale della vittima, non servivano a niente. C'erano già. Erano una inutile aggiunta a quel che prevede il testo del 1930: l'aggravante di AVER AGITO PER MOTIVI ABIETTI, art. 61 comma 1. Ed è indubitabilmente abietto agire contro qualcuno solo per sgradimento del suo stile di vita.

Questa chiara circostanza aggravante, immediatamente applicabile da ogni giudice di merito, rendeva pleonastica non solo la legge appena bocciata, ma anche la parte della precedente "legge Mancino" che prevedeva aumenti di pena per reati commessi "per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali". Tutto già ricompreso, fin dal 1930, nell'articolo 61 comma 1 del codice Rocco.

Ed è quindi fondamentalmente irragionevole, in un Paese oltretutto malato di ipertrofia legislativa, credere che un reato si punisca meglio facendo sullo stesso argomento più leggi che dicono tutte le stesse cose. Non è che, se fai tre leggi anziché una su un dato reato, allora quel reato è più facile che venga sanzionato, o che venga punito più duramente.

Quindi delle due l'una. Quelli che vanno in piazza perché credono che, bocciata la legge, continuerà a essere lecito, o comunque più facile o penalmente meno costoso, prendersela con qualcuno per motivi sessuali, non hanno letto o capito la Zan e non conoscono il codice Rocco. Ma è più bello, va ripetuto, sventolare bandiere allo stadio che dedicarsi allo studio.

Quelli che invece vanno in piazza perché del ddl Zan gli interessava soprattutto l'art. 4, cioè una delle norme più totalitarie e soffocanti che siano mai state azzardate in un'aula parlamentare italiana dalla fine del fascismo, allora hanno un'idea un po' strana di "libertà": ovvero che la libertà sia solo quella di pensarla come loro, e chi non la pensa come loro o stia zitto oppure venga trascinato davanti a un giudice. Così impara.

Perché questo e non altro diceva – per giunta in modo subdolo - l'articolo 4, specie in un Paese con una magistratura non povera di personaggi incilni alla supplenza politica se non al pieno protagonismo da legislatori obliqui, una magistratura un cui spezzone sindacale si è infatti prontamente unito al coro di chi deprecava la mancata approvazione. Ecco perché la Zan, dove non era superflua, era pericolosa.

Diventa allora sempre più difficile, viste le reazioni animose anche qualificate al voto del Senato, rimuovere il sospetto che il "cuore" della legge, l'unica ragione della sua presentazione, fosse davvero l'art. 4: ovvero la possibilità, tutt’altro che teorica, di denunciare e far condannare – per esempio - non solo chiunque osasse dire di non vedere con favore la pratica della compravendita dei bambini, pudicamente cosmetizzata col nome di “maternità surrogata” che suona tanto bello; ma perfino un prete che dall'altare avesse letto l'inizio della Bibbia, libro della Genesi 1 26-28, la semplice frase "Maschio e femmina li creò". Col risultato di ridurre al silenzio chi, tra l’esprimere un’opinione come le due surriferite e dover affrontare spese legali più perdita di tempi processuali, avrebbe preferito stare zitto.

A proposito dei contratti con le clausole trappola, Eco scrisse un passo esilarante nel “Pendolo di Foucalt” a proposito degli scrittori a proprie spese che pagano gli editori. Il romanziere, che se ne intendeva, ricordava che, nei contratti editoriali luciferini, le clausole nefaste sono scritte in piccolo al fondo di pagine e pagine di altre clausole altisonanti quanto inutili, che il cliente finirà per firmare per estenuazione e senza rendersi ormai conto di quel che firma. Qui no, qui la clausola trappola, quella su cui è venuta meno qualsiasi possibilità di mediazione perché era evidentemente questo ciò che davvero interessava, in una legge che altrimenti ripeteva regole già scritte da 91 anni, era bella grossa, un articolo intero. Un articolo che, in una legge presentata come strumento per battere le discriminazioni, avrebbe introdotto una bieca discriminazione di segno opposto. Comprensibile l'antico risentimento di un insieme di comunità spesso bersagliate in modo atroce; ma la voglia di vendetta non è mai una buona base di legiferazione.

Rileggiamo insieme questo testo.
Art. 4 (Pluralismo delle idee e libertà delle scelte) – Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti".

Questo articolo era scritto malissimo. Il cittadino deve infatti avere ben chiaro che cosa possa fare o dire e che cosa no, per evitare condanne penali. Qui chiarezza zero, invece. Se le condotte sono "legittime", che bisogno c'è di dire "sono fatte salve"? E chi decide se siano "idonee" o "non idonee" a determinare un "concreto pericolo"? E poi cosa rende "concreto" un "pericolo", che cosa rende "pericolo" un "pericolo"? Che cosa sono gli "atti discriminatori"? Chi decide tutto questo? Un pm? Un giudice? Magari un giudice come alcuni di quelli delle intercettazioni di Palamara, ovvero attivisti liberi di fare politica con lo scudo spaziale della toga e l'arma letale dell'azione penale, spesso obbligatoria solo a parole ma nei fatti selettiva e mirata ancor più che discrezionale?

Può darsi che questo articolo di legge sia stato scritto male appunto per ignoranza dei minimi elementi di tecnica legislativa. Perché se fosse stato scritto apposta in modo così indefinito, ambiguo, fumoso, in modo da lasciare una discrezionalità praticamente infinita al pm militante di turno, allora la cosa sarebbe stata gravissima.

In questa legge, parafrasando un motto di Rossini, c'era del bello e c'era del nuovo, ma il bello non era nuovo e il nuovo non era bello. Il bello non era nuovo perché era già legge da oltre novant'anni. Il nuovo non era bello, perché era un reato di opinione. Lo ha sostenuto anche il senatore Tommaso Cerno, omosessuale tra i pochissimi parlamentari a dichiararsi tale, eletto nel Pd. Quel Pd di cui un protagonista storico come Romano Prodi ha ammesso: “La legge poteva passare con qualche ritocco, ma Letta ha cercato l'incidente”. Chi barava, allora? Chi ha giocato poco chiaro?

Quindi non ribaltiamo i ruoli, non parliamo di "amore" che promana dalle piazze che protestano e di "odio" in chi, conoscendo abbastanza bene le leggi, vede nel voto del Senato uno scampato pericolo per la libertà di opinione e quindi per la libertà stessa. Chi oggi prova sollievo lo fa perché l'Italia non è diventata - per ora - un Paese meno libero di prima, con un reato di opinione in più, per giunta talmente indefinito da esporsi a qualsiasi arbitrio formulativo, tipo il delitto di "parassitismo sociale" per cui il poeta e futuro Premio Nobel per la letteratura Iosif Brodskij era stato condannato da una corte sovietica.

Chi mastica amaro invece lo fa nella migliore delle ipotesi perché non ha letto o non ha capito la legge; nella peggiore perché si è visto svanire un meraviglioso e terribile strumento per vedere punita penalmente ogni visione del mondo difforme dalla sua. Sublime paradosso per chi proclama la bellezza delle diversità.