Ora che la infinita partita giudiziaria si è conclusa con l’affidamento ai servizi sociali sarebbe il caso di dire qualcosa di importante su Marta Vincenzi, una delle più brillanti donne politiche del Dopoguerra genovese, cancellata completamente, se non dalle cronache giudiziarie, dopo il processo per i fatti di dieci anni fa per la tragedia del Fereggiano e la conseguente morte di sei persone, tra cui due bambine in tenerissima età, travolte dall’onda nera del torrente assassino.
Forse è finito il calvario giudiziario di quella che noi vecchi giornalisti avevamo ribattezzato Supermarta per il piglio di politica, amministratrice pubblica, leader del fu Pci, poi degli altri partiti nati dopo da quella radice, sindaca di Genova dal 2007 al 2012. Certamente non è finito, invece, il suo calvario politico e civile, segnato dalla vicenda giudiziaria, quattro processi, condanne pesantissime, la pena inflitta per non avere chiuso le scuole durante una allerta meteo di gravissima entità, alla vigilia di quel fatale 4 novembre 2011.
Non entriamo in quel processo, in quelle condanne diventate una zavorra finale. Diamo per scontato l’enorme peso sulla coscienza per quelle vittime innocenti. Ma non possiamo non calcolare quella totale cancellazione della persona pubblica, costata alla sindaca di allora, l’unica in Italia nella storia dei disastri naturali a subire uno scotto così alto.
Mai nessun pubblico amministratore ha pagato così il suo ruolo di responsabilità al vertice di una istituzione pubblica. Sola la Vincenzi. E nel silenzio di tomba calato sul suo destino, come se dovesse essere solo l’aula di giustizia a parlare, c’è qualcosa di profondamente ingiusto.
Ricordo la solitaria e unica battaglia di Vittorio Coletti, grande professore universitario, accademico della Crusca e forte polemista, nei suoi articoli sulle pagine di Repubblica, che sottolineava con persistenza l’unicità di quel caso, fino a scrivere un pampleth, intitolato “Genova 2011, analisi di un processo.” Marta Vincenzi è stata lasciata sola completamente dalla politica, dalla società civile, dalla sua città, di fronte al suo destino giudiziario, che diventava poi anche, appunto, civile, politico, umano.
Era una delle teste più vivaci e brillanti della politica, tra gli anni Settanta e la sua pubblica esecuzione. Figlia di un operaio, studentessa modello, professoressa di lettere, preside, aveva scalato le gerarchie di partito e quelle istituzionali grazie a un carattere forte e a una personalità vivace, che forse non l’hanno aiutata nella battaglia finale con la giustizia contro la quale ha magari sbagliato qualche mossa anche a livello personale. Combattendo da sola, scrivendo perfino un discusso libro intitolato “In attesa di giustizia”.
Anche da presidente della Provincia, da europarlamentare, da sindaca può avere sbagliato, così come da leader di un Pd, nato dalle ceneri del suo comunismo di origini e radici profonde, magari contrapponendosi con un pizzico di superbia alle nuove generazioni che tentarono di salire sulla scena.
Ricordo da cronista di tante sue battaglie, soprattutto quelle da sindaco, di averla criticata, di avere dissentito, anche magari con insofferenza dalla sua esuberanza, di avere pensato che stava sbagliando, che stava esagerando. Che la sua “discontinuità” rispetto al passato sindaco, per esempio, fosse un errore grave. Ma allo stesso modo, quando è incominciato il suo processo, eclatante, clamoroso, nel dolore profondo di quei lutti, nel disastro dell’ennesima catastrofica alluvione, che metteva in ginocchio Genova, ho pensato che lasciarla così sola era una insopportabile ingiustizia.
Allora, dieci anni fa, non esisteva il sistema delle allerte, i colori che segnalavano l’ampiezza del pericolo meteorologico e neppure c’erano sistemi di difesa, sistemi di protezione organizzati, una sensibilità così attrezzata al rischio di eventi naturali estremi, le bombe d’acqua, i temporali autorigeneranti…..
Eravamo ai volontari di vedetta sui torrenti a rischio esondazione, che nel suo caso sono stati così importanti nelle fasi del processo. Altro che previsioni satellitari, analisi matematiche dei rischi! E per fronteggiare quelle tempesta eravamo all’arma un po’ indeterminata di chiudere le scuole, ma in quale momento, a quale livello di conoscenza, con quali trasmissioni dell’emergenza, con quale catena di comando e di responsabilità?
Da allora Marta Vincenzi, star del sistema politico amministrativo, è rimasta di colpo solo la imputata di quel processo. Per lei era perfino difficile circolare per la città. La insultavano, le sputavano addosso. La sola protezione era la sua famiglia, la sua testa, le sue risorse personali, i libri da scrivere nei quali si è rifugiata, nel suo eremo sopra Rivarolo. Probabilmente Marta Vincenzi avrebbe affrontato lo stesso iter di scomparsa dalla scena pubblica di tanti suoi colleghi di una generazione che tra una Prima, una Seconda e una Terza Repubblica sono come evaporati dalla ribalta pubblica, dalla grande visibilità di cui godevano.
Ma un conto è se ciò avviene per le cause naturali di un cambio politico così violento, come quello a cui assistiamo, tra partiti e movimenti che nascono e si schiantano, tra leader che in un attimo si riducono a comparse. Un altro conto è se la scomparsa, repentina e bollata dalle sentenze della giustizia, avviene come una morte civile, una cancellazione quasi dal consesso pubblico. Amici, nemici, vecchi compagni, fedeli e infedeli compagni di strada tacciono. E hanno taciuto. Un po’ per pudore nei suoi confronti, un po’ per vigliaccheria, un po’ per intollerabile oblio.
cronaca
Il caso di Marta Vincenzi, la ingiusta condanna civile prima di quella penale
Supermarta è stata lasciata sola dalla politica e dalla città
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