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Presentato in concorso 'Two prosecutors' del regista ucraino Sergej Loznitsa
3 minuti e 10 secondi di lettura
di Dario Vassallo

CANNES - Il regista Sergej Loznitsa ha sempre esplorato i lati più oscuri sia della Russia che della sua nativa Ucraina in un corpus di opere che ha oscillato senza soluzione di continuità tra finzione e documentario. Qui a Cannes torna alla fiction (in concorso) con ‘Two prosecutors’, una potente dichiarazione sulla tirannia russa, sia di ieri che di oggi, e probabilmente il suo film più austero, controllato con la stessa severità con cui la polizia segreta di Stalin degli anni '30 e '40, la famigerata NKVD, controllava il popolo sovietico.

La trama

Il film si apre con un enorme cancello d'acciaio, quello di una prigione nei pressi di San Pietroburgo, e una didascalia che ci informa che siamo nel 1937, al culmine del terrore staliniano. Ad un anziano prigioniero viene affidato il compito di bruciare un sacco pieno di lettere di detenuti che implorano Stalin di riconsiderare i loro casi. Tra queste missive destinate a fallire c'è un biglietto scritto col sangue da un certo Stepniak, un tempo ex-procuratore, che richiede una visita dell’attuale procuratore di stato. La lettera sostiene che i servizi di sicurezza usano le carceri e il sistema giudiziario per torturare e uccidere un'intera generazione di veterani del partito come lui, per insediare una corte di fedelissimi a Stalin. Un pubblico ministero risponde alla sua chiamata: è il giovane Kornyev, appena nominato, che inorridito dalle spaventose condizioni di Stepniak e dalle prove di tortura, si reca a Mosca per sollevare le sue preoccupazioni presso la massima autorità possibile senza rendersi conto che in questo modo firmerà la sua fine, non solo professionale.

Tratto dal libro di un dissidente rinchiuso per 14 anni in un gulag 

Basato su un libro di uno scrittore e scienziato dissidente che fu tenuto in un gulag per quattordici anni, scritto nel 1969 ma pubblicato solo nel 2009, il film non è animato da alcun particolare senso di suspense, non si basa su rivelazioni improvvise o colpi di scena gratuiti, ci sono poche sorprese in serbo per come andranno le cose per il nostro eroe sempre più sfortunato. Piuttosto, il nodo sta nella banale prevedibilità delle umiliazioni e delle disillusioni di Kornyev che crescono lentamente e nella devastazione nei dettagli, come la velocità con cui un corpo a terra viene rimosso dal cortile della prigione come non ci fosse mai stato. Così si irradia un gelido brivido di paura, di ansia e di giustificata paranoia parlando di una burocrazia maligna che si protegge e si replica infettando coloro che la sfidano con un bacillo di colpa.

Un atto di accusa dal sapore kafkiano 

‘Two prosecutors’, nero come la pece, è una marcia funebre kafkiana che descrive un mondo senza calore né speranza in cui cercare di fare la cosa giusta potrebbe rivelarsi la scelta più rischiosa di tutte. L'obiettivo di Loznitsa non è drammatizzare la spietata efficienza con cui i sistemi totalitari soffocano ogni dissenso quanto quello di eliminarne l'elemento umano, poiché in un sistema del genere non c'è umanità, solo una miriade di regole stabilite per mantenere tutti al loro posto. Lasciando poi alla fine lo spettatore di nuovo davanti alla stessa porta della prigione dove tutto è iniziato, il film è come un lungo e tortuoso viaggio circolare che riflette sul passato ma anche - per chiunque voglia guardare - uno specchio rivolto al presente dove il regista ucraino si autoimpone la sfida di vedere con quanta efficacia un'estetica rigorosamente formale possa evocare gli orrori pervasivi e disumanizzanti della vita sotto il controllo totalitario. Alla fine ci regala una letterarietà quasi tattile, come leggere un classico di Camus, Kafka o Orwell dove le pagine sono macchiate dal tempo ma le intuizioni rimangono dolorosamente e intensamente vive.

 

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