Cultura e spettacolo

All'origine un racconto di Joe Hill, il figlio di Stephen King
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Un viaggio terrificante intorno all'idea che i veri mostri siamo noi stessi. Ce lo fanno compiere con 'Black phone' il regista Scott Derrickson, lo sceneggiatore Robert Cargill e l'attore Ethan Hawke che tornano a riunirsi dieci anni dopo il successo di 'Sinister', ottimo film horror, prendendo come spunto un racconto di Joe Hill, figlio di Stephen King, che ha molti tratti distintivi dell'orrore raccontato in tante opere dal padre, a partire da un luogo isolato con una figura che vi viene intrappolata, un po' come succedeva al protagonista di 'Misery'.

Siamo in una piccola zona operaia di Denver, nel 1978, dove Finney è un timido adolescente che vive con la sorellina Gwen che fa il possibile per proteggere da un padre violento mentre dal canto suo lei lo difende da compagni di classe che lo bullizzano. La perdita della madre li perseguita ancora ma rimangono comunque la forza l'uno dell'altro. Intanto in città si aggira un sadico rapitore e assassino di bambini, di cui nessuno sembra sapere nulla, che la polizia non riesce a trovare e che cattura Finney rinchiudendolo in uno scantinato insonorizzato con un telefono nero fuori uso e dunque apparentemente inutilizzabile. Ma mentre Gwen, dotata di uno strano potere che sembra aver ereditato dalla madre, inizia a sognare il fratello scomparso, in realtà quel misterioso telefono comincia a squillare: dall'altra parte della cornetta gli spiriti delle precedenti piccole vittime del rapitore cercano di aiutarlo affinché non subisca la loro stessa sorte.

Una trama apparentemente semplice che mescola elementi soprannaturali con un'angoscia vera che parte dal fatto che il rapimento di un bambino già di per sé è un pensiero intrinsecamente terrificante. 'Black phone' lo prende sul serio ma senza mai diventare eccessivo o scontato, con gli elementi ultraterreni – come i sogni di Gwen o lo stesso telefono – che aiutano a mantenere un piede nel mondo della fantasia ma senza diventare mai troppo invadenti. In altre parole, il film è abbastanza realistico da essere spaventoso, ma non così realistico da risultare inattendibile.

A differenza di altri horror recenti, 'Black phone' ha la consistenza e la fluidità drammatica di un'altra epoca tanto che non sembra soltanto svolgersi negli anni settanta ma pare proprio qualcosa che arrivi da lì, non fosse altro per aver evitato accuratamente il sensazionalismo digitale puntando soprattutto sui personaggi. E al centro c'è un mostro davvero allarmante. Ethan Hawke ha il volto per lo più nascosto dietro una maschera, simile all'effigie di un demone giapponese, di lui vediamo praticamente soltanto gli occhi, il che rende la sua performance ancora più inquietante: un personaggio misterioso e omicida, complesso e affascinante, attorno al quale si avverte una costante minaccia di pericolo ancor prima di vederlo protagonista delle sue azioni depravate che implicano una natura profondamente psicopatica. Così alla fine siamo di fronte ad una vicenda – pur nella sua drammaticità - raffinata, ben congegnata, legittimamente terrificante e scomodamente plausibile. Tra i migliori horror della stagione.