Cronaca

Si tratta dell'ingegnere Claudio Bandini che e non diede l'allarme nonostante i test di Spea avvertivano di rischio crollo e certificò il progetto in violazione al codice degli appalti perché oltre i 20 milioni
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GENOVA -Oggi in aula al processo Morandi entra il primo imputato di Autostrade per l'Italia, l'azienda dei Benetton che è ritenuta la prima responsabile della tragedia del 14 agosto 2018 costata la vita a 43 persone. Si tratta dell'ingegnere Claudio Bandini (nella foto all'inizio dell'esame), le cui responsabilità sono legate all'avere certificato il progetto di messa in sicurezza nonostante i dati allarmanti che vi erano contenuti avrebbero dovuto indurlo a chiudere il ponte per il rischio crollo. Non solo Bandini non avrebbe potuto certificare il retrofitting perchè si trattava di un'opera del costo superiore a 20 milioni di euro che in base al codice degli appalti doveva essere certificata da un consulente esterno.

Ad affidare la certificazione a Bandini (difeso dagli avvocati Antonio e Michele D'Avirro) fu Michele Donferri Mitelli, uno degli imputati con la posizione più complicata, la mente delle manutenzioni di Aspi, che fra l'altro era consapevole delle critiche condizioni degli stralli e disse a Bandini di non occuparsene.

Bandini è stato il responsabile dell’ufficio Verifica Progettazione dal 4.2.2013 al 27.11.2016 (1.392 giorni) e poi responsabile dell’ufficio Service Tecnico-progettuale dal 28.11.2016 al crollo (624 giorni), svolgendo sempre le medesime funzioni, per circa 5 anni e mezzo, al di là del mutamento di denominazione del suo ufficio.

Bandini esaminando le schede del Morandi avrebbe dovuto capire che era a rischio crollo: lo si evince dai test di Spea sulle travi del ponte, la tabella St002 riporterebbe una sfilza di cifre inferiore a 1, “l’indice sotto il quale una struttura rischia di crollare perché non sostiene più il peso per cui è stata progettata”.

Non solo: alcune travi del Morandi avevano ottenuto 0,58, dimostrando che la resistenza si era dimezzata: “Si tratta - scrive la Commissione tecnica - di valori del tutto inaccettabili, cui doveva seguire un provvedimento di messa in sicurezza improcrastinabile”.


La tabella di Spea fu allegata al progetto di retrofitting delle pile 9 e 10 e approvato da Autostrade il 12 ottobre 2017.
Secondo il Codice degli appalti quel progetto avrebbe dovuto prima essere certificato da un organismo esterno, perché superiore di 159.344 euro al tetto dei 20 milioni, ma la norma fu ignorata deliberatamente da Autostrade, che incaricò della certificazione un interno, l’ingegner Claudio Bandini.

Furono altri due tecnici poi imputati, Paolo Strazzullo, responsabile unico del procedimento per Autostrade, e il progettista di Spea Massimiliano Giacobbi ad inviargli l’incartamento del progetto esecutivo, compresa la tabella St002.

Quando vide quei risultati Bandini si preoccupò: rimandò l’incartamento ai mittenti, senza validarlo, accompagnandolo, anzi, con 62 osservazioni e domande.

La prima domanda era la seguente: “Il contenuto di questo progetto è stato trasmesso al direttore di Tronco a Genova ed è stato concordato con gli uffici centrali e periferici di Autostrade?”. La risposta che ricevette, che la commissione giudica “evasiva e non concludente” fu che l’aveva già visto chi lo doveva vedere.

Bandini fece anche un’altra osservazione, la numero 14: visto che secondo i test il ponte risultava malmesso, per quale motivi ci si stava limitando ad un intervento sulle pile 9 e 10? Gli fu risposto che gli interventi di ripristino della rimanente parte dell’impalcato sarebbero stati oggetto di un successivo appalto.

Allora Bandini chiese se la sua verifica doveva soffermarsi anche sulla parte strutturale dell’intervento, ma ottenne una risposta  molto dura: "L’intervento sugli stralli costituisce un’attività estremamente specialistica, il cui sviluppo si traduce in scelte costruttive e dimensionali fortemente presidiate in fase di progettazione. Pertanto non si ritiene necessario intervenire sugli aspetti sopra menzionati. Bandini invece di fermarsi, certifica lo stesso il progetto, e per questo fu poi indagato e oggi è in aula in veste di imputato.

Per i pm dell'accusa accetta consapevolmente di violare la legge – per la precisione il codice degli appalti pubblici -obbedendo ad un ordine illegittimo di Donferri, che gli chiede di procedere alla verifica del progetto, evitando di coinvolgere l’unico ufficio di Aspi legittimato, quello diretto da Riccardo Marasca, e come già accennato gli chiese di non occuparsi degli stralli. Insomma tutta la parte della progettazione che riguardava gli stralli – cioè la parte principale – non è quindi mai stata verificata da nessuno, neppure sommariamente e formalmente, neppure da un soggetto non
accreditato come Bandini.


Dopo Bandini, probabilmente domani, sarà sentito Antonio Brencich, ingegnere strutturista e docente di ingegneria a Genova, consulente del comitato tecnico amministrativo del provveditorato di Aspi della Liguria che nel redigere la relazione del progetto del retrofitting scrisse quella frase "degrado impressionante" che avrebbe dovuto allarmare tutti, lui compreso, e far bloccare il traffico sul viadotto, e che invece fu cancellata perché ritenuta allarmistica.

Brencich, stimato professore pur con carattere non facile, come è stato riferito dal alcuni colleghi ascoltati come testi, ha assistito a tutte le udienze e sarà la chiave dal punto di vista tecnico per capire il Morandi più in condizioni gravissime non fu mai chiuso.

Brencich aveva rilasciato anche due interviste sul viadotto Polcevera, la prima in tempi non sospetti, il 5 maggio del 2016 a Elisabetta Biancalani di Primocanale definendo il Morandi "un fallimento dell'ingegneria", in linea con le sollecitazioni dall'editore Maurizio Rossi che in veste di senatore fra il 2015 e 2016 aveva presentato più interpellanze sul tema al ministro Delrio.
Poco dopo, sempre nel maggio 2016, Brencich aveva parlato con il al Secolo XIX ("Morandi in agonia, allarme manutenzioni") auspicando che il ponte fosse abbattuto perché lo stato di degrado era troppo elevato e mantenerlo in vita non era più economicamente conveniente. Per questo non era visto di buon occhio dai vertici di Aspi e Spea che di abbattere la gallina dalle uova d'oro, il transito sul viadotto regalava alle casse di Aspi 10 milioni all'anno visto che ogni giorno fra i caselli di Aeroporto e di Genova Ovest transitano 60 mila veicoli che permettevano di incassare introiti per 30 mila euro, moltiplicando la cifra per un anno si capisce a quanto avrebbe dovuto rinunciare Aspi in caso di chiusura.