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Sessismo, molestie, body shaming, violenza fisica e psicologica: da donne, diciamo basta
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Le donne della redazione di Primocanale hanno voluto condividere una serie di riflessioni, che partono tutte da esperienze vissute sulla propria pelle, nella Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, ricorrenza annuale internazionale del 25 novembre. Racconti che sono storie vere, storie comuni, storie di tutte

1 - Premetto a tutti, soprattutto agli uomini perché le donne temo già lo sappiano, che una ragazzina giovane non reagisce a certe situazioni come una adulta: non denuncia, prova vergogna, pudore. Oltre che schifo. Questo tenetelo sempre presente, state attenti ai segnali che mandano, le vostre figlie o nipoti, perché raramente (o mai) racconteranno quello che è successo. Prendo qualche episodio dal mazzo, senza fronzoli e metafore. E non sono IL peggiore episodio. Il mio primo incontro con il membro maschile lo ho avuto quando ero alle elementari, non ricordo l’età esatta. Stavo andando a scuola allegramente con la mia amichetta quando, sotto i portici, in coincidenza di un passo carrabile, un’auto si parò di fronte a noi. All’interno un uomo si inizió a masturbare. Io non ne avevo mai visto uno, di membro maschile, e quindi non capii bene cosa stessi vedendo, ma capimmo entrambe che c’era qualcosa che non andava e corremmo via. Alla mia amica dissi che mi pareva che avesse in mezzo alle gambe un portachiavi a forma di carota. Lei mi disse “no”. Da quel giorno non ne parlammo mai più, ma ogni tanto ci guardavamo e facevamo un segno con la mano che mimava il tagliare la gola. Non si doveva dire a nessuno. Solevo, più grandicella, andare a studiare sotto il portico di una bella chiesetta. Conobbi così il prete (di cui ricordo esattamente nome e cognome), che un giorno mi invitò nella sua casa sopra alla chiesa, forse per farmi vedere dei quadri. Salii, al primo piano. Mi fece accomodare al tavolo e mi accarezzo le cosce. Ma fu gentile, si fermò li. In treno, da studente, per un lungo periodo (mesi) un uomo saliva qualche fermata dopo di me e si masturbava a pochi sedili di distanza dal mio, guardandomi. Io: troppo orgogliosa, schifata e spaventata per spostarmi. Un giorno, grazie a Dio, non lo vidi più. In stazione, per un periodo, un uomo con problemi, credo, psicologici, ma non evidentissimi, faceva finta di nulla e ad un certo punto, mentre ero sul binario che aspettavo il treno, mi passava accanto velocemente e con la mano mi sfiorava le gambe. Lì ero più grande, mi faceva venire la tachicardia, e un giorno urlai “basta schifoso vai via”. Dopo un po’ non lo vidi più. Ricordatevi, le ragazzine hanno pudore a denunciare, si vergognano. Semplicemente perché sono giovani.

2 - Da piccola era il cugino più grande. “Vieni qui ti insegno a guidare”. Una bambina, ancora alle elementari, sulle gambe di un ragazzo da poco maggiorenne. Solo crescendo realizzi che l’incubo di stare al volante non viene dalle altre macchine e dai segnali stradali, ma da confuse reminiscenze. Poi da giovane donna, quando si diventa desiderabili agli occhi maschili, si deve sempre prestare attenzione a non incrociarli troppo e non lasciare possibilità ai fraintendimenti. La battuta, almeno per tastare il terreno, te la fanno sempre. Se il tuo superiore, statisticamente quasi sempre uomo, ti apprezza può essere tanto per il tuo cervello che per le tue gambe. Se dall’insieme ne resta infatuato è più un tuo problema che suo. Se ti mette le mani addosso. “È la mia parola contro la tua, Baby”. “Ah perdonami, forse sono stata io che respirando nella stessa tua stanza ti ho sedotto”. Con il tempo impari a sfuggire, anche perché il giorno che ribatti, beh, diventi nervosa. “Hai il ciclo? Dovresti rilassarti di più, hai bisogno di un aiuto per farlo?”. “No, vorrei solo essere pagata quanto il mio collega maschio, penso mi aiuterebbe molto a rilassarmi”. Poi c’è quello che scherza sempre. “Ma non l’hai un’amica? Stavo scherzando”. “Non mi rispondi più? Stavo scherzando”. “Stai zitta, ora! Dai, stavo scherzando”. “Beh se ti diverti così, fa pure”. Piccoli uomini, annoiati e irrisolti, che riversano la propria inadeguatezza verso l’universo femmine. “Eh eh .. se dici così sei arrabbiata?”. “Ma no figurati, stavo solo scherzando”.

3- La latteria è quel luogo dove la mamma ti mandava a prendere il latte, come cantava Gianni Morandi nel 1962. Invece, per qualcuno, è un luogo dove affogare le proprie fantasie sessuali, perché quando pensi al latte pensi al seno di una donna. E più ce n'è, meglio è. E allora arriva un momento nella vita di ognuno, in cui si iniziano a fare i conti con il proprio corpo, con i propri difetti, o presunti tali. E quando questo appuntamento si palesa, senza bussare, in piena adolescenza, è come una doccia fredda in pieno inverno, quando le temperature esterne sono sotto zero, e quello che si desidera di più sarebbe solo un piumino caldo che ti avvolge e ti fa sentire protetta. Quando a cambiare, per esempio, è il proprio seno, troppo "esplosivo" per l’età che hai, tutto diventa tremendamente doloroso perché rappresenta, per il mondo, uno dei primi "biglietti" da visita della donna. E allora ti chiedi: perché a me? Perché è così, perché non riesci più a guardarti allo specchio, perché non riesci più a comprarti una camicetta o un maglioncino, perché non riesci più a passarti una crema da corpo senza sprofondare nel malessere più intimo. Perché la vita è anche questo, e il dolore non ha un prezzo, al chilo, non è quantificabile o giudicabile. “Ah bellaaa, complimenti per la latteria”. A 16 anni fai fatica a comprendere, ti chiedi appunto perché proprio a te, perché quello che per te è un difetto, che vorresti nascondere e reprimere, sia invece così evidente agli altri. E magari c’è qualcuno che ti suggerisce anche di prenderlo come un complimento. “Sai quante lo vorrebbero al tuo posto?”. “No, non lo so, e non lo voglio sapere”. Come lo chiamano oggi? Body shaming? Se vogliamo dargli un nome sì, si chiama così. Nomi a parte, la verità è che dietro a ogni azione, a ogni sconsiderata affermazione, si cela sempre una persona, con il suo tracciato, scritto e riscritto e pieno di cicatrici. E allora può essere il seno, il naso, la pancia, un vestito troppo provocante (a detta degli altri) o qualsiasi altra cosa ci rappresenti in quel momento, a scatenare un commento sessista, volgare e offensivo. E ogni donna ha il diritto, e anche il dovere, di considerarlo tale, senza sentirsi dire che certe affermazioni sono complimenti, sono “burle” da strada, e che in realtà è meglio riceverli che essere trasparenti agli occhi del maschio alfa. Partiamo dalle parole, perché sono il passe-partout che porta direttamente ai fatti. E forse, se si fermassero le parole, si potrebbero fermare anche i fatti.

4 - Era il secondo appuntamento. Ci eravamo conosciuti ad una festa, lui era più grande di me, mentre io avevo 16 anni. Era un ragazzo pieno di interessi, avevamo già un paio di amici in comune e con una vita in giro per il mondo: era scattata subito la mia curiosità. Ma aveva subito messo le mani avanti, "ci vediamo senza impegno". Mi andava bene, il primo aperitivo era stato divertente, tra risate, discorsi impegnati, interessi in comune. Poi messaggi su messaggi, tutti i giorni, e la voglia di rivedersi prima che partisse alla volta per l'ennesima esperienza all'estero. Mi viene a prendere sotto casa, "che carino", penso. Musica accesa e si sfreccia in una Genova che iniziava ad essere afosa in attesa della piena estate. E la macchina va, si infila in strade che non conosco. Pensavo - che ingenua - che saremmo andati a bere una cosa dopo cena. Ci fermiamo in un luogo isolato, al buio. Improvvisamente quella situazione inizia a starmi stretta, inizio a dire che voglio tornare a casa perché il giorno dopo devo andare a scuola, sono gli ultimi giorni. "Ora andiamo". "Ora poi andiamo". La voce si fa dura, decisa, irremovibile. Inizia a venire tardi, non ho detto ai miei che sarei uscita e rischio di passare un guaio. E poi chissà dove sono? Cosa faccio? Come torno a casa? "Ora andiamo, ma prima finiamo". Non mi va più, è tutto sbagliato. Ma finisce presto. "Okay, dai, ora andiamo". Appena sotto casa, lo saluto con un cenno e corro via. Quella vergogna, quell'umiliazione, quel no che non ero riuscita a dire, quella che a tutti gli effetti è stata una violenza, cerco di lavarla via dalle mani, me le sfrego con l'acqua e con il sapone, ancora e ancora, e mi sento una stupida: ebbene tutte queste sensazioni le provo ancora adesso. 

5 - Ho paura a tornare a casa da sola. Prendo in giro mia madre che mi chiama anche 10 volte in una serata prima che io sia rientrata, ma in realtà la capisco. Un tempo mi sembrava tutto un'esagerazione, in fondo "sono diventata grande e cosa vuoi che sia". E allora se sono grande, posso pensare di poter fare una passeggiata da casa della mia amica a due isolati di distanza da me da sola e non chiedere un passaggio ai miei genitori? Posso raggiungere i miei amici e lasciare la macchina nel primo parcheggio che trovo, come fanno tutti? Posso andare in discoteca e andare via un po' quando mi pare, senza aspettare che esca tutto il gruppo? Una delle ultime volte che l'ho fatto me la ricordo ancora. 3 di notte, ero stanca, ma tanto ero andata in bici a ballare nella cittadina della riviera. Inforco le mie due ruote e inizio a pedalare, quando a metà strada incontro il solito gruppetto di ragazzi ubriachi. "Ehi, bellezza in bicicletta". "Dai, fermati un attimo". "Che me lo fai fare un giro?". Dalle parole tentano di passare ai fatti, sbarrandomi la strada. Il cuore mi va in gola, sono le 3 di notte e in strada non c'è nessuno, inizio a pedalare di buona lena. Da allora, ogni volta che posso prendo un taxi o cerco di tornare assieme ad un amico o una amica. E se proprio devo fare un tratto da sola, l'ansia mi aiuta a vigilare e ad essere sempre attenta a ciò che mi circonda. Io, però, vorrei poter tornare a casa da sola, come fanno i grandi. I grandi, ragazzi e uomini. 

6 - C'è una violenza domestica subdola e poco raccontata. Se ne parla poco perché è difficile da riconoscere, anche tra chi dovrebbe averne gli strumenti. Si chiama sopraffazione psicologica ed emotiva ed è legata molto spesso anche all'indipendenza economica di una donna. Funziona così, che ogni giorno si vive con il proprio compagno e ogni giorno arriva una richiesta di rinuncia. Ma tu non capisci subito che si tratta di rinunce, ti pare siano regali d'amore. Lui ti chiede di non andare all'aperitivo con i vecchi compagni di scuola, di rinunciare all'uscita con l'amica per una serata diversa, di dire no a quel lavoro che ti porterebbe fuori di casa magari in un'altra città. Che ti farebbe splendere e appagare. Lui può arrivare a chiederti di non guidare più la tua vecchia Vespa. E poi di non lavorare proprio, di stare dietro alla famiglia. Ti senti un simulacro, una dea venerata e contenuta in un abbraccio che piano piano diventa oppressione. Perché quell'abbraccio ti stritola, ti schiaccia e ti toglie il respiro. Sei entrata in un tunnel, che ogni giorno diventa sempre più buio. Hai perso la tua libertà economica, senti addosso a te il dovere e la responsabilità. Quando ti ribelli, ti senti dire che è quello che hai voluto tu. Che sei una fallita, magari che non sei in grado di trovarti un lavoro. Ma come, tu che avevi obbedito, tu che lo avevi fatto per lui. Siamo in tante ad averlo provato. Il mio pensiero e la mia carezza sono per quelle che ancora ci sono dentro.

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