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Qualcosa sta cambiando nell’atteggiamento verso le proteste settimanali dei No vax. Ieri pomeriggio sono scesi in piazza a La Spezia i Si Vax, con un presidio, chiamati a raccolta dal pugnace leader dei pendolari liguri (le vittime storiche dei treni locali) e da altre sigle come Assoutenti, per fare sentire e rappresentare la voce del vasto popolo di chi si è vaccinato e, nel rispetto delle regole fissate per combattere la pandemia, ha pensato non soltanto a se stesso, ma anche alla salute degli altri e al lavoro e alla produzione del Paese.

Finalmente si muove anche la piazza contro la minoranza. E, badate bene, è la maggioranza, la stragrande maggioranza degli italiani che sta scontando sulla sua pelle l’assalto alle corsie ospedaliere e ai reparti intensivi da parte di chi, rifiutando il vaccino, si è ammalato gravemente e, quindi, occupa posti letto che spetterebbero di diritto ai malati di altre patologie anche molto gravi costretti a sopportare rinvii, dolori e ansie continue.

La piazza si fa sentire. Era ora. Bene. Purché resti sempre una piazza nell’ordine e nel rispetto delle regole. Una piazza forte e democratica. E che sia pure una piazza rumorosa, che urli ai quattro venti che il Covid si può affrontare e frenare. Che si può davvero sperare in una convivenza ragionevole con il virus, così come conviviamo, grazie ai vaccini sempre più raffinati, con malattie che un tempo seminavano morti e devastazioni economiche. Quei vaccini che facciamo appena nati e che ci accompagnano nella nostra vita e che, grazie alla scienza, sono aumentati, evitandoci altri malanni.
Avrete tutti letto i numeri impressionanti che disegnano lo stato attuale della sanità pubblica: interventi chirurgici rinviati di un anno e mezzo quando va bene, per non parlare degli screening oncologici. Ma con ritardi impensabili in un Paese civile, anche quegli interventi di elezione, cioè programmati, che un cittadino ha il diritto di ricevere per stare meglio o per evitare dolori spesso insopportabili.

Una sanità pubblica esemplare per la sua reale universalità, che la politica dissennata del passato, con targhe che vanno dal centrodestra al centrosinistra, basata sull’esaltazione assoluta dei tagli (“taglio” era una parola d’ordine di moda a partire dalla metà degli anni ’90) in nome di un’ indiscriminata lotta agli sprechi (questa sì giusta , ma con le dovute eccezioni), ha demolito. Ricordo alcuni anni fa di avere raccolto a Primocanale gli appelli accorati dei leder del medici ospedalieri, dei pronto soccorso, dei medici di famiglia che gridavano la loro preoccupazione per la mancanza di specialisti, frutto di una farraginosa politica di accesso universitario, di posti letto, di presidi ospedalieri di comunità. Non c’è bisogno di fare sforzi sovrumani per ricordare la guerra contro i piccoli ospedali messi al bando come male assoluto e esempi di sprechi forsennati. E, ammettiamolo, ci siamo cascati spesso anche noi giornalisti andando dietro a queste scelte, ritenendo che un piccolo ospedale di paese o di quartiere, magari con ottimi medici e un’ altrettanto seria assistenza di base (certo non le grandi patologie!) fosse un inutile fardello, insostenibile, magari giustificato solo dai ritorni elettorali di qualche politico stanziale.

Abbiamo sbagliato tutti. Ma ora la pandemia ci ha messo di fronte a una catastrofe alla quale va posto rimedio subito, di corsa, con una nuova sanità pubblica territoriale e non solo. Un ripensamento totale, dalle radici. Dall’accesso alle facoltà mediche, dal passaggio alle specializzazioni. Una sanità che riporti il medico a dialogare con l’assistito, assicurando al medico e agli infermieri giusti e dignitosi riconoscimenti salariali. Una sanità che disegni ospedali flessibili, pronti a ricambiarsi rapidamente in alcune parti interne.

Intanto, oggi, ascoltiamo la piazza della Spezia. Una piazza che vuol gridare uno slogan di fiducia, nonostante tutto. “Contro ogni distorsione della verità, contro la vittoria della paura e dell’ignoranza sulla fiducia e sulla scienza”.

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