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Una cosa è certa, Giorgia Meloni è circondata: dopo le sgrammaticature del presidente del Senato La Russa sull’attentato di via Rasella (roba di 80 anni fa ricostruibile solo dagli storici), ecco la ‘sostituzione etnica’ del ministro Lollobrigida, che pure alla Premier dovrebbe riservare un sentimento di particolare simpatia, vantando anche uno stretto legame di parentela. Con l’approssimarsi del 25 aprile più teso della storia repubblicana, di tutto la Meloni ha bisogno tranne che del fuoco amico.

Se l’incidente di La Russa era stato didattico, semplicemente non conosceva a fondo i fatti di cui s’era messo a parlare, Lollobrigida è caduto in una trappola linguistica: volendo rappresentare un pensiero più vasto ha utilizzato un’espressione che puzza di nazismo, e tutto ciò che restituisce quell’odore deve stare lontano cento passi dall’eloquio dell’esponente di un Governo democratico. In questo il ministro arci-meloniano ha mostrato grave ingenuità, sempre che non abbia utilizzato il pruriginoso concetto di proposito: in questo caso dovrei utilizzare per descriverlo un sostantivo meno accomodante.

E’ però ingiusto relegare la battuta a semplice gaffe, o utilizzarla per un mero attacco politico: nella sostanza, e al netto del modo barbaro di esprimersi, siamo sicuri che Lollobrigida sia pienamente nel torto?

E’ in effetti da qualche tempo che sto rimuginando sul progetto del Governo, a quanto sembra benedetto più dalle opposizioni che dagli alleati, di aprire le frontiere italiane a un certo numero di cittadini extracomunitari desiderosi di trasferirsi entro i nostri confini. Vista in modo neutro si tratta di una buona idea, il classico ‘decreto flussi’ che si propone di normare l’accesso al nostro Paese senza lasciare che a stabilire chi e quanti siano le organizzazioni criminali: quello che preoccupa, però, è lo scopo ultimo che sembra animare questa iniziativa. Che non è tanto quella della ‘sostituzione etnica’, che è una sciocchezza, ma quella di procurare all’Italia una quota di lavoratori a buon mercato che possano impiegarsi in quei lavori che, quante volte l’abbiamo detto o sentito dire, i nostri connazionali non vogliono più fare.

Non so a voi ma a me questa cosa non torna. Possibile che nessuno si domandi perché gli italiani non vogliano raccogliere pomodori per quattro soldi? Perché non accettino di vivere stipati in miniappartamenti, senza garanzie e tutele? Forse perché mediamente un italiano nato e cresciuto qui ha una rete di protezione, una famiglia, dei contatti che gli permettono comunque, quale che sia la sua condizione economica, di mettere assieme il pranzo con la cena senza accettare l’inaccettabile. Non sarà che stiamo pensando, più che alla sostituzione etnica, all’importazione degli schiavi?

E mi sorprende che pochi, forse nessuno, stia alzando la mano da sinistra per chiedere spiegazioni. Sembra quasi che l’equazione stranieri uguale risorse stia diventando per il mondo progressista un mantra così radicato da essere impermeabile a ogni considerazione critica: è proprio questa la strada che desideriamo percorrere? Importare manovali a basso prezzo spacciandola per misericordia?

Bisogna sempre fare attenzione a quello che si desidera, dice il saggio, perché potrebbe avverarsi: riempire le aziende di operai con scarse pretese economiche e contrattuali, abituati ai rigori della fame e della privazione, è un’idea geniale, vista da un membro di Confindustria, ma molto pericolosa osservata dal punto di vista sindacale. Una simile operazione, oltre a riempire le campagne di nuovi disperati, ora forse protetti da un penoso contratto che si dirà, è sempre meglio di niente, avrebbe l’effetto di comprimere ulteriormente i diritti, alimentando la competizione al ribasso nel segmento più fragile della forza lavoro.

Agli occhi di un giovanotto che vive alla periferia di Accra o della martoriata Khartum, la prospettiva di un biglietto di sola andata per l’Italia, quale che sia il prezzo da pagare in loco, può sembrare una fortuna, ma non renderebbe il bel Paese, dove tradizionalmente vive ‘brava gente’, tanto diverso dalla rutilante Dubai, edificata in quattro e quattr’otto da un esercito di operai del Bangladesh, dell’India o del Pakistan pagati con un tozzo di pane. E’ vero che da noi non esiste la Kafala, il sistema di patronaggio arabo che somiglia vagamente al servaggio medievale, ma è anche vero che pur in presenza di una bella Costituzione, dello Statuto dei diritti del lavoratori e di molti contratti collettivi di lavoro, il rischio di abbassare al minimo le pretese della domanda è molto alto. Un rischio che sarebbero proprio i più deboli a sostenere.

Forse è giunto il momento di moderare le battaglie sui diritti civili, che sono certo cruciali nella costruzione di un Paese più giusto, per concentrarci su quelle per i diritti sociali: quella competizione verticale che getta fiato sul collo anche a chi si trova più in alto di noi e non solo alla persona che abbiamo a fianco. A furia di accapigliarci giù in basso non ci stiamo rendendo conto che nessuno si prende il disturbo di mettere in discussione ciò che dovrebbe importarci davvero: perché guadagniamo tutti così poco, per esempio? Perché ci sono lavori che faremmo solo se giunti all’ultimo stadio della disperazione?

Proviamo a risolvere i temi che stanno sul fondo di queste domande: faremo un favore anche ai migranti che diventeranno i nostri nuovi connazionali.

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