"Finché non procederà ad una profonda e radicale revisione della pubblica amministrazione, l'Italia potrà fare tutte le riforme possibili, ma non migliorerà". All'epoca stavo al Secolo XIX e queste parole, nel corso di una intervista, me le disse il professore genovese Victor Uckmar, uno dei migliori fiscalisti e tributaristi che l'Italia abbia mai avuto. Si trattò di una vera e propria lezione, con la spiegazione del perché gran parte dei mali nazionali dipendessero da una struttura che ormai faceva acqua da tutte le parti. Da allora sono trascorsi oltre venti anni e, se possibile, le condizioni sono peggiorate.
Nel frattempo ci è venuta pure l'idea che tutti i dipendenti pubblici fossero dei fannulloni e che i risparmi si dovessero fare anche lì. Così dagli di forbice, con sindaci che hanno accampato l'assurdo merito di aver tagliato e tagliato e tagliato gli organici dei Comuni. Risultato? Secondo la Cgia di Mestre la "malaburocrazia", frutto anche, se non principalmente, del cattivo funzionamento della macchina pubblica, ci costa oltre 11 punti di Pil all'anno. Malcontati, sono 225 miliardi di euro, più del doppio dell'evasione fiscale stimata ogni dodici mesi.
Tutte queste cose mi sono venute in mente leggendo e ascoltando in questi giorni le mille polemiche sugli affannosi ritardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ora, dire che è colpa del governo di Giorgia Meloni, in sella da sei mesi, è solo frutto del furore di parte. Riconoscendogli la necessaria onestà intellettuale, credo che l'ex presidente Mario Draghi lo abbia detto nella sua recentissima visita al Quirinale, che ha preceduto il vertice fra Sergio Mattarella e Meloni stessa.
Di più. Il "piddino" Paolo Genitloni, che di questa Repubblica è stato ministro e premier e dunque sa come stanno le cose, nella sua veste di Commissario europeo per l'economia osserva: "Abbiamo già approvato la revisione per Germania, Finlandia e Lussemburgo. È vero che i piani di Spagna, Portogallo e Italia sono più impegnativi, ma io ho fiducia che ce la faremo".
In discussione non sembra esserci la tranche di finanziamenti previsti per fine anno, bensì quelli al 2026: secondo il ministro Raffaele Fitto, un esercizio di realismo impone di dire che molti di quei progetti non potranno essere realizzati. "È matematico", rileva Fitto. E i numeri sono lì a parlare chiaro: finora è stato speso il 6 per cento dei finanziamenti ottenuti e solo l'1 per cento dei progetti è stato completato. Inoltre, il 65 per cento dei progetti passa dai Comuni e il 60 per cento di questi da amministrazioni molto piccole, persino sotto i 5000 abitanti. Mancano ingegneri, funzionari, impiegati. Manca gente.
Ecco perché ascoltando Giovanni Toti, il governatore ligure, ho avuto la salutare sensazione del buon senso. Dice Toti, in soldoni: vanno coinvolte di più le Regioni, soprattutto nelle cabine di regia dei lavori, perché esse possono adeguatamente sostenere i Comuni nel loro impegno. Cioè le Regioni ci possono mettere, dove serve, il personale necessario. E ove ci fosse una carenza di progetti, non è neppure campata per aria, sempre Toti dixit, l'idea di far spendere il denaro che può arrivare dall'Europa a chi è in grado di farlo. La Liguria, per esempio.
Maledetti tagli vien da dire. Perché con le strutture pubbliche ridotte al lumicino si è pensato bene, in questi decenni, di ridurre la sanità, i trasporti e quant'altro fosse in odore di finanziamento da parte dello Stato. Affidando ai privati, invece, cespiti pubblici da cui ricavare moltissimo: le autostrade, tanto per dirne una.
Ora, se è vero che nessuno ci obbliga a fare le spese previste dal Pnrr, è anche vero che si tratta di una formidabile occasione. Complessivamente sono quasi 200 miliardi di euro che l'Unione europea ci ha promesso attraverso il Next Generation Eu. Ma non è denaro gratis. In gran parte, anzi, è un debito la cui ultima rata la pagherà un diciottenne che oggi non è ancora nato.
Ecco perché su tutto si staglia la lezione di Uckmar. Per realizzare i cantieri del Pnrr si usino pure le scorciatoie di buon senso comune che si troveranno, sia nella messa a punto dei progetti sia nella previsione dei tempi. Ma se vogliamo che le responsabilità per il futuro non siano disattese esiste una sola via maestra: la vera riforma della pubblica amministrazione.
IL COMMENTO
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