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Il problema non è lo scontro ma la qualità di chi sarà selezionato
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Io non ho mai capito, lo confesso, la generale ostilità verso quella che la pubblica opinione, e spesso anche la stampa, chiama “lotta per accaparrarsi le poltrone”. E’ puntuale come le tasse o le allerte meteorologiche: ci sono le elezioni (nelle quali, di norma, si battezza la campagna elettorale come “la peggiore che si sia mai vista”, in quello che dovrebbe essere uno sprofondo continuo verso un abisso irraggiungibile) e poi la lotta per la poltrona. Prima le une e poi l’altra.

Non capisco, lo ripeto, cosa ci sia di male nel desiderio che ha ogni partito di piazzare nei ruoli chiave i propri uomini: cosa dovrebbero fare i leader politici dopo le elezioni? Non si sono forse candidati apposta per realizzare i progetti che hanno sottoposto agli elettori? Dovrebbero forse dire “no, dai, a quel ministero mettiamoci il tuo candidato che è migliore del mio”?

Trovo pertanto perfettamente normale, perfino legittimo, che il giorno dopo le elezioni si accenda una lotta all’ultimo sangue (in senso metaforico, s’intende) per conquistare i principali, ma anche i secondari, posti di potere. E’ da questa fase che si configurano le istituzioni come noi le conosciamo, è dalle poltrone, e dalle scrivanie ad esse collegate, che discendono le decisioni che caratterizzeranno le legislatura appena nata.

E questa battaglia non può e non deve essere vista in senso negativo: Matteo Salvini voleva il ministero dell’Interno perché la questione sicurezza è stata sempre al centro dei suoi programmi e della sua comunicazione politica. E’ forse un crimine? Silvio Berlusconi vuole per uno dei suoi uomini (o donne) il ministero della Giustizia perché considera il rapporto tra magistratura e Paese uno dei nervi scoperti del funzionamento dello Stato: dovrebbe tirarsi indietro senza combattere? Noi liguri, per citare un caso più sociale che politico, abbiamo chiesto a gran voce che il ministro delle Infrastrutture sia un ligure, visto il grave divario che caratterizza la nostra regione da molte altre: facciamo male?

E persino le trattative sottobanco per altri incarichi di prestigio, per esempio le vicepresidenze delle Camere, trattative che possono superare i limiti di ciò che è comprensibile per i profani, cioè votare un candidato avversario alla Presidenza del Senato, com’è successo a Ignazio La Russa, fanno parte della normalissima dialettica politica. Io faccio una cosa per te, tu ne farai una per me.

Non è quindi la lotta per le poltrone ad essere un problema, tutt’altro. Ciò che deve interessarci davvero è, piuttosto, la classe dirigente che compone i partiti: per dirla in parole povere, la cosa importante è il sedere che verrà piazzato su quella poltrona, non la sua tessera di partito o l’area politica da cui arriva.

Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia hanno tutto il diritto di spartirsi i posti di Governo (hanno vinto le elezioni cos'altro dovrebbero fare?); i partiti dell’opposizione hanno certamente il diritto di combattere tra loro per piazzare uno dei propri uomini nei posti loro riservati (hanno perso ma vogliono comunque incidere nelle decisioni chiave). Ma tutti loro hanno il dovere, questo si, di accertarsi che le donne e gli uomini che mettono in concorrenza per quegli incarichi siano all’altezza del compito che dovranno svolgere. E’ questo ciò che conta.

Quindi ben vengano le lotte, gli sgambetti e i compromessi: ma una volta compilata la lista da discutere con il presidente Mattarella ci si accerti che i nomi che contiene siano di primissimo livello. Perché il proprio esponente in un posto chiave è un grande valore: può incidere e portare nel Paese, attraverso quell’incarico, la visione politica di quel partito. Se però è un incapace si rivela un pericoloso boomerang: per sé e, soprattutto, per chi l’ha candidato.

Viva la lotta per le poltrone, dunque, ma che a quella lotta partecipi il meglio del meglio. Da questa fase passa il futuro dell’Italia, che i partiti ne siano consapevoli.

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