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Terza tappa dell’assemblea dei soci. Servono subito 300 milioni per garantire la produttività ma il gruppo indiano non è intenzionato a fare la sua parte. Lavoratori e sindacati chiedono una presa di posizione forte al governo
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GENOVA - Sembra più una battaglia di nervi quella che si combatte tra il gruppo indiano Arcelor Mittal e lo Stato italiano. Sullo sfondo il futuro dell’acciaio in Italia. In questo mercoledì 6 dicembre terzo capitolo dell’assemblea dei soci di Acciaierie d’Italia.

Nell’immediato per non far spegnere la siderurgia servono 300 milioni. Cifra necessaria per garantire il pagamento delle forniture di gas. Senza questi il rischio chiusura è più di un timore anche per i circa mille lavoratori dello stabilimento di Genova Cornigliano. A cui si aggiungono i 280 di Ilva in amministrazione straordinaria che sarebbero dovuti essere riassorbiti in estate. Arcelor Mittal, che detiene il 62% di Acciaierie d’Italia, non sembra intenzionata a mettere la sua quota di investimenti. E anzi è lo Stato italiano attraverso la controllata Invitalia (che ha in mano il 38% delle quote di Acciaierie d’Italia) chiamata a dare risposte. 

Le prime due assemblee sono finite con delle fumate grigie nonostante dai vertici abbiamo parlato di “passi in avanti”. Il gruppo indiano preme affinché lo Stato converta i 680 milioni immessi in questi mesi per accrescere la sua quota al 60% ribaltando così le parti tra Invitalia e Mittal. Tra le ipotesi sul tavolo anche quella dello scioglimento di Acciaierie d'Italia con l'ipotesi commissariamento.

Il presidente di Regione Liguria Giovanni Toti ha commentato: "A questo punto credo che il percorso sia segnato. In qualche modo lo Stato dovrà, se non tornare alle vecchie partecipazioni statali che credo nessuno auspichi, pilotare l'ex Ilva verso una un buon socio industriale e verso un progetto per un piano industriale di fatto già tracciato dal presidente Bernabè. La convinzione è che l'acciaio è un pezzo importante del nostro paese da cui discendono molto altre produzioni. Mi auguro che si arrivi a una nuova partenza e un nuovo progetto".

I sindacati Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm uniti chiedono al governo di essere chiari e definire una volta per tutte la strada da percorrere per evitare la chiusura degli impianti di Taranto, Genova, Novi Ligure, Racconigi e Marghera. Nel mentre ad alimentare la preoccupazione è lo stop per una settimana dell’altoforno 2 di Taranto. 

A Genova lavoratori e sindacati denunciano da tempo la mancanza di investimenti e le precarie condizioni di sicurezza. È lunga la lista di incidenti che si sono susseguiti nel tempo all’interno dello stabilimento. “Uno stabilimento che lavora al 20% delle sue possibilità nonostante il mercato sia vivo”. Banda stagnata e produzione di latta le due peculiarità prodotte a Genova.

Senza risposte entro un anno i sindacati hanno aperto alla possibilità di rivedere l’accordo di programma del 2005 pur di garantire un reddito ai lavoratori. Accordo di programma che regola, tra le altre cose, la gestione delle aree ex Ilva. Su quelle aree c'è l'interesse di tanti, si parla di quasi 1.000.000 metri quadri vicine all'aeroporto e vicine all'autostrada, sul mare e fornite di banchina. L'accordo di programma prevede l'occupazione per 2500 lavoratori dello stabilimento di Genova Cornigliano, oggi in realtà sono circa 1000 più i 280 in amministrazione straordinaria. Su quelle aree è stato mostrato più volte interesse da parte di aziende legate alla logistica e alla manifattura.

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