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"Il Sudan ha bisogno del nostro impegno, del nostro aiuto, ha bisogno di tante cose ma soprattutto di non essere dimenticato", ha detto il genovese, presidente della Ong Music for Peace
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SUDAN - "Le sensazioni si inseguono. Un poco di angoscia, un poco di dubbio, e tanto sconforto nel lasciare queste persone da sole". Inizia così il racconto del rientro di Stefano Rebora, il genovese presidente della Ong Music for Peace fino a ieri bloccato in Sudan tra gli scontri armati tra esercito e forze paramilitari.

Le immagini pubblicate sui profili social della associazione genovese raccontano il viaggio di Rebora, suo figlio, e altri quattro volontari, iniziato nella casa in cui erano rimasti chiusi al buio otto giorni, dallo scoppio di quella che ha tutta l'aria di una guerra civile. I cinque genovesi erano impegnati in un progetto umanitario nella capitale del Sudan, Khartoum, quando sono iniziati gli scontri armati che se non per qualche ora, in nome di tregue poi fallite, non sono mai cessati.

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Di contorno una lunga descrizione di ogni passaggio: dalla sveglia a mezzanotte e mezza con la telefonata dell'Unità di Crisi a Roma che li avvisa della possibilità di rientrare in Italia, alla macchina che li avrebbe dovuti portare all'ambasciata con la batteria a terra e la generosità di due passanti. Il viaggio è continuato passando per ogni singolo check point gestito dalle Rapid Support Forces, le forze paramilitari che conta circa 100mila combattenti in tutto il Sudan nate nel 2013, una evoluzione della famigerata milizia che nel 2003 combatté in Darfour. Sono loro che ora si contendono il palazzo presidenziale con l'esercito sudanese. Un tragitto di 20 minuti - racconta Rebora - diventato lungo tre ore.

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Tra momenti di paura e tensione il dolore per quello che è un paese con una popolazione massacrata e affamata. Ad oggi si contano più di 600 morti, e migliaia di feriti, dopo soli nove giorni di violenza. "Varchiamo un’area che purtroppo è realtà e non film" si legge nel post del genovese. "Dai finestrini un odore nauseabondo, acre e quasi irrespirabile. La vista mette a fuoco ciò che l’olfatto ha percepito. Macchine su un fianco, in mezzo alla strada ridotte in carcassa. Una jeep militare con una gamba che penzola dal cassone con il sangue seccato dal caldo e dal sole. Le vene pulsano fortissimo in testa".

"Gli occhi svelano ancora lo spettacolo macabro di cadaveri a terra. Lasciati a marcire. Corpi di essere umani. Esseri umani che non sono tornati più a casa, dalla famiglia. Famiglie che forse nemmeno sanno dove si trova quel corpo umano inanimato e saccheggiato dai colpi di arma da fuoco. È il viaggio più lungo della nostra vita".

96 persone riportate a casa, su due distinti voli partiti da Gibuti, 83 italiani e 13 cittadini stranieri: è il bilancio del Sottosegretario di Stato alla Difesa Matteo Perego di Cremnago. Tra di loro anche i cinque genovesi. Rebora, da poco arrivato in Italia, al Tg1, prima di saltare su un aereo a Roma diretto a Genova, ha detto che spera di poterci tornare al più presto.

"Sono stati momenti difficili, in cui abbiamo visto tutto quello che era la nostra quotidianità fino a qualche giorno prima, distrutto. Cadaveri, armi e violenza ovunque: il Sudan era un paese che accoglieva, e ora è nel caos. Il 90% della popolazione già viveva nella povertà, è paese che anche prima aveva bisogno di un processo di democratizzazione e che ora cade nel baratro. Ha bisogno del nostro impegno, del nostro aiuto, ha bisogno di tante cose ma soprattutto di non essere dimenticato", ha concluso il presidente di Music for Peace.

 

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