cronaca

Dodici mesi passati, tra preoccupazioni e speranze
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 Mentre si sta bruciando la seconda primavera per colpa del maledetto Covid, tra paure, limitazioni spaventose alla vita civile, al lavoro, alla socialità e prospettive incerte, ci si può chiedere se è peggio oggi al secondo turno di questa sofferenza o se un anno fa il nostro spirito era migliore.


Un anno fa stavamo per uscire da un lock down totale, nato improvvisamente, un incubo totale, anticipato solo da quelle immagini cinesi delle città chiuse e dalla gente che si incoraggiava urlando dai balconi. Eravamo choccati, ma in qualche modo passati dall’illusione “andrà tutto bene”, alla percezione di affrontare una pandemia terribile, che il nostro sacrificio stava in qualche modo domando.


Calavano i contagi e i morti, dopo le visioni apocalittiche di Bergamo con il corteo militare dei carri funebri e la visione planetaria della pandemia era incerta. Dagli Usa arrivavano notizie terrificanti di New York in ginocchio, ma i cinesi stavano uscendo dall’incubo molto rapidamente.
Avevamo la sensazione di avere vissuto in una prova “storica”, epocale per le nostre generazioni postbelliche. Ma stavamo uscendo e la bella stagione esplosa proprio con una primavera di rara mitezza ci faceva sentire ottimisti.
Si parlava di una seconda ondata, dopo l’estate, in autunno. In mezzo, però, c’era l’estate che sarebbe stata la nostra grande illusione di una vita quasi normale.


Con la mascherina, finalmente facilmente reperibile, ma in spiaggia, in montagna, viaggiando con una certa facilità. Si litigava solo sulle discoteche e qualche virologo annunciava incautamente che il virus “non c’era più”.
Un anno dopo la stanchezza, quella che Ilaria Capua, la virologa più ascoltata, definisce “pandemia fatica”, è molto più pesante.
Sono arrivati i vaccini, all’inizio salutati come un miracolo e dopo un inizio difficile della relativa campagna, ci stiamo vaccinando, lentamente, ma sempre più massicciamente. La sicurezza sul futuro prossimo, vicino e lontano è, però, molto più vacillante.


I numeri dei contagi e dei morti è uguale a un anno fa, anzi forse un po’ peggio.
Le varianti si moltiplicano e i vaccini si complicano ogni giorno. La discussione sulle riaperture, anche con un governo di presunta unità nazionale, è aspra, quotidiana.
La protesta monta ogni giorno in ogni piazza, perché le condizioni di vita e di lavoro sono in picchiata, con i ristori deludenti e legioni di lavoratori allo stremo.


Le notizie che ci circondano dagli altri Paesi del mondo sono altalenanti e non molto rassicuranti. Chi ha vaccinato molto, come il Regno Unito o gli Usa, sembra respirare con riaperture, che però arrivano dopo chiusure ben più drastiche delle nostre.
Ci sono paesi dai quali arrivano immagini da apocalisse, come dal Brasile delle fossi comuni o dall’India, che sembrava essersi messa al riparo e invece no.
L’impatto planetario del Covid 19 appare totalmente dispiegato.
Non affrontiamo questa fine primavera e la prossima estate con lo spirito di un anno fa. Sappiamo che dovremo convivere con il virus, con i vaccini, con i richiami, con le chiusure, con le limitazioni, con le carte verdi, con i certificati per viaggiare per chissà quanto tempo.


Siamo preoccupati per chi non riuscirà a sollevarsi dalla catastrofe economica, per le generazioni giovani che hanno perso due primavere e non solo in senso meteorologico.
Ma non ci resta che aggrapparci alla speranza, dopo un Natale e due Pasque trascorse agli arresti domiciliari. Sperare che la vaccinazione abbatta i contagi, che il Recovery fund dispieghi i suoi effetti non solo economici, che il virus non continui a degenerare ma abbia un percorso diverso, come la storia delle grandi epidemie ha insegnato finora. E che il prossimo Natale sia “vero”, proprio come una rinascita.