cronaca

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Viaggiare sulle autostrade italiane è ormai uno sport estremo, un’attività riservata alle persone coraggiose, che hanno bisogno di adrenalina e forti emozioni. Il caso del viadotto crollato sull’autostrada Torino – Savona è l’ultimo spaventoso segnale d’allarme dello stato di incredibile fragilità delle nostre infrastrutture. Nessuno è morto, così come nessuno è finito nel buco nero che si è aperto, sempre ieri, sull’asfalto della Torino – Piacenza: un autentico miracolo.

Ma non è sperando nell’angelo custode che milioni di persone possono mettersi in viaggio ogni mattina: il Paese deve prendere coscienza del punto di non ritorno in cui si trova e cambiare, immediatamente, direzione. Quanti morti dobbiamo ancora piangere sulle nostre strade prima di affrontare la questione come si deve?

Il fatto avvenuto ieri sulla A6 non è meno spaventoso della strage del Morandi, né ha senso soffermarsi sulla differenza tecnica tra i due crolli: se sto percorrendo un viadotto autostradale, infatti, cambia poco se la mia morte sia provocata da uno strallo che si strappa sopra la mia testa o da una frana che mi colpisce, travolgendomi. Io sarei morto comunque. Avere dei piloni in salute che giocano alla roulette russa con le colline circostanti non è una cosa buona: possibile che non si riesca a dare uno sguardo d’insieme all’intera infrastruttura, controllando la strada e ciò che la circonda?

Anche perché i concessionari delle autostrade, nel caso della Torino – Savona la società Sias del gruppo Gavio, dispongono senza ombra di dubbio delle risorse necessarie per farsi carico della sicurezza della loro intera rete: si tratta di business miliardari, esercitati in condizione di sostanziale monopolio, garantiti dallo Stato. Non si tratta di puntare il solito dito contro i ricchi e cattivi ma sottolineare, come già facemmo dopo il Morandi (ma anche prima) che le concessioni autostradali, per loro stessa natura, dovrebbero generare (se affidate a privati) margini ridottissimi: non c’è concorrenza, il fatturato è garantito dagli inevitabili flussi di traffico, gli interventi di manutenzione sono coperti da continui aumenti tariffari: perché queste aziende mettono in tasca utili come se fossero imprese della Silicon Valley?

La A6 è gestita dal gruppo Sias, a sua volta controllato dalla famiglia Gavio attraverso la Astm Spa, in pancia alla holding dei Gavio, la Argo Finanziaria: un colosso con fatturati miliardari. Astm, in particolare, è il secondo player al mondo nella progettazione, costruzione e gestione di infrastrutture autostradali. In Italia i ricavi di Astm si attestano a 1,7 miliardi di Euro, con un Ebitda di 771 milioni e un utile netto di 289 milioni di Euro. A dare un’occhiata ai bilanci di altre aziende di grandi dimensioni che operano in settori ben più competitivi rispetto alle concessioni di Stato, si nota che i Margini Operativi sono infinitamente più bassi. In questo contesto non è possibile contrarre gli utili per favorire gli investimenti sulla sicurezza?

E’ chiaro che non possono essere i privati a tagliarsi gli utili da soli, anche perché tutto questo bengodi finanziario attira nuovi capitali come api sui fiori: alla fine del 2018 i Gavio hanno infatti ricevuto un bel gruzzolo, 800 milioni di Euro, dal fondo di private equity francese Adrian che ha rilevato il 40% di Astm. C’è da capirlo: con i margini spaventosi che lo Stato italiano garantisce ai concessionari delle autostrade, tutti vogliono entrare nel business.

E’ dunque il Governo, che lo dice da tempo ma per il momento non lo fa, che deve rivedere il sistema delle concessioni: Rete Ferroviaria Italiana dopo il deragliamento di Andora (causato da una frana caduta da un terreno privato) si è impegnata a perlustrare tutti i terreni attorno ai binari, perché non si chiede la stessa cosa ai gestori delle autostrade? Con centinaia di milioni di Euro di utili, possibile che dalle tasche degli azionisti non possa uscire il corrispettivo necessario a farci tornare a casa la sera sani e salvi?