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Magari la riforma non piace, ma ha cambiato modo di fare politica
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Potrà piacere o non piacere, ma nessuno può affermare che Matteo Renzi sia un rammollito. O ha una mostruosa memoria (chissà che rompiballe doveva essere a scuola…) o il fido Luca Lotti che lo segue come una giovane badante gli prepara dei copioni straordinari nella puntualità e nella precisione.

Fatto sta che l’altra sera, da noi a Primocanale, il premier reduce da una giornata cominciata alle 6.30 sulla pista bloccata da un incidente dell’aeroporto di Ciampino e terminata con Marco Doria, non si è limitato, come tutti i nostri ospiti si aspettavano a un generico e cortese saluto. Macché. Ne ha avute per tutti, a ognuno ha fatto la domanda giusta (salvo come osserva acutamente Lorenzo Licalzi sul Decimonono qualche defaillance sugli anni di gioco del mitico Arnuzzo), ha ascoltato nomi e cognomi e di tantissimi conosceva benissimo nome e cognome, ma anche quello dei figli e della colf.

Il commento generale era più che sui contenuti, sulla tenuta fisica del premier, su come regge, sullo stile che ha dato a Palazzo Chigi. Per la Genova che era presente, solida e attenta, poco propensa a gratuiti entusiasmi, storica e contemporanea, ma non rassegnata e piagnona, variegata come solo la capacità di public relation man del senatore Rossi ha saputo mettere insieme, Renzi è stato promosso.

Magari la riforma non piace del tutto (ma viene letta da imprenditori e manager come una giravolta), ma lui ha cambiato il modo di fare politica e governo. Piaccia o no, con lui (commentavano gli ospiti) è finito quello stile sempre un po’ democristiano, un misto di lentezza e pesantezza, di ritualità e “borbonismo” (mi perdoni il termine l’amico Vittorio Coletti) che ha liquefatto quarant’anni di politica a Palazzo Chigi.

È sbagliato accostare lo stile di Renzi a quello di Berlusconi: il cavaliere era un imprevedibile cumenda catapultato tra gli ori del palazzo romano, un “ghe pensi mi” messo a frantumare i calici in fila sulle tavole dei palazzi della Roma papalina. Il Matteo è una straordinaria “giovane marmotta” che dorme poco e fa dormire pochissimo quelli che gli girano attorno, primo il povero Lotti: un eroe, chiamato a sapere tutto, tutti i numeri delle crisi aziendali italiane, probabilmente anche i telefoni dei ministri, dei parlamentari e anche della stiratrice delle bianche camicie del premier.

“Lotti! Lotti! Lotti!”. E akela Lotti arriva, ascolta, risponde preparato anche all’ eventuale reprimenda se dovesse sbagliare una virgola. Con Filippo Dellepiane si parla di codice degli appalti, con Ugo Salerno di collegamenti infrastrutturali, con il Rettore di Erzelli e di atenei, con il professor Roppo di giustizia, con l’architetto Femia di progetti in giro per il mondo, di scuole di legno e del mancato progetto di Firenze, con Andrea Gais di trasporti marittimi, con Davide Malacalza di innovazione e fusione nucleare, con Roberto Cingolani di Human Technopole, con Maurizio Rossi di collegamenti ferroviari per Milano e per Roma con Graziano Cesari di quella volta che da arbitro (Renzi non Cesari) magari fischiò un rigore che non c’era. E Lotti prende appunti e, soprattutto, si ricorda tutto. Ma come fanno questi due? I genovesi sono esterrefatti.

Come farà Lotti destinato a interfacciarsi (e mi riscuserà Coletti se uso questo orrendo verbo) con i dinosauri genovesi? Loro viaggiano a 78 giri mentre qui si è rimasti ai 33. Il premier non si ferma nemmeno davanti alle trenette: un piatto e poi un altro. Non si preoccupa come Berlusconi se il pesto è con o senza aglio. Intanto lui brucia subito quello che deglutisce…

Hanno apprezzato la sua velocità. Piaccia o non piaccia. Sì no. Lui va. Dove? Al referendum che sempre di più, piaccia o non piaccia, è si o no al governo Renzi. E tutti escono convinti che, se dovesse perdere, due ore dopo avrà messo le camicie nel trolley e salirà sul Frecciabianca per Firenze. Piaccia o non piaccia.