Cultura e spettacolo

Il film di Baz Luhrmann è l’opera cinematografica più visivamente anarchica degli ultimi dieci anni
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Quasi un decennio dopo ‘Il grande Gatsby’ (2013, anche quello presentato fuori concorso qui a Cannes dove in quel caso inaugurò il Festival) con ‘Elvis’ torna sullo schermo il cinema caotico, colorato e spumeggiante di Baz Luhrmann e forse nessun altro avrebbe potuto mettere in scena in un modo così spettacolare il Re del rock ’n’ roll, colui che in quest’ambito ha rimodellato il ventesimo secolo detenendo tuttora il record di singoli più venduti al mondo nonostante non si sia mai esibito al di fuori degli Stati Uniti. Perché Elvis Presley continua a restare un mito, al di là dei tempi e delle mode.

Proprio come accade nel ‘Grande Gatsby’ la storia non è raccontata dal personaggio del titolo, ma vista attraverso gli occhi di qualcun altro, ovvero il colonnello Tom Parker, interpretato da Tom Hanks, manager di Elvis per gran parte della sua carriera che lo sfruttò spietatamente rifiutandosi di lasciarlo andare in tournée all'estero e trasformandolo alla fine in una parodia di strass e lustrini fino alla morte dell’artista, avvenuta a 42 anni. Il film si concentra su questa travagliata relazione che si fa strada sullo sfondo del panorama musicale e culturale in via di sviluppo negli Stati Uniti tra gli anni cinquanta e sessanta segnati anche - con le morti dei fratelli Kennedy, John e Bob, e di Martin Luther King - dalla perdita dell'innocenza di un’intera nazione.

L’’Elvis’ di Luhrmann è la cronaca vertiginosa e travolgente di un’icona. Racconta la storia di una leggenda alla velocità della luce, 10 milioni di giri al minuto, nervoso e pieno di energia come lo era il giovane Presley quando salì sul palco negli anni '50 facendo impazzire le ragazze per arrivare alle serate leggendarie all'Hotel International di Las Vegas, dove si esibì per la maggior parte della carriera. Disancorato dalle barriere narrative di un'opera di Verdi (Moulin rouge), di una tragedia di Shakespeare (Romeo+Giulietta) o di uno dei romanzi più importanti del 20° secolo (Il grande Gatsby), Luhrmann si prende la libertà assoluta di remixare la vita e i tempi di Elvis mettendone in luce sia il genio singolare che la dipendenza dall'eccesso che alla fine lo ha distrutto.

Certo, ci sono domande che rimangono inevase: come ha fatto uno sciatto imbonitore come Parker a incastrare così profondamente una delle più grandi star di sempre? E perché Elvis è rimasto con lui anche quando avrebbe potuto licenziarlo in modo che la sua carriera potesse salire ancora più in alto? Luhrmann non risponde perché probabilmente alla base c’è un enorme rispetto per il personaggio tanto che - ad esempio – non ce lo fa vedere nella parte conclusiva della sua vita grasso e gonfio com’era diventato. Guida il film come un treno che potrebbe deragliare in qualsiasi momento ma che non lo fa mai arrivando alla fine, dopo due ore e trentanove minuti, senza aver rallentato un secondo.

C’è poi l’interpretazione di Austin Butler che non si ferma al mimetismo, liberandosi dall'iconografia popolare e dando l'opportunità di creare un nuovo contesto emotivo per un uomo che è stato congelato e cristallizzato nel tempo dai ricordi e dai filmati dell’epoca. In definitiva, una delle storie di ascesa e caduta più importanti della cultura pop, grazie anche ad un montaggio implacabile, freneticamente appariscente, epico e ricco di variazioni di ritmo diventa l’opera cinematografica più visivamente anarchica degli ultimi dieci anni nel raccontare la storia di un oracolo sexy che riceveva musica dall'inconscio collettivo e la rimandava indietro con una forza centuplicata dopo averla fatta passare attraverso il suo corpo e la sua anima.