Cultura e spettacolo

L'opera primadi Maggie Gyllenhall ha vinto il premio per la sceneggiatura alla Mostra di Venezia dell’anno scorso
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La genitorialità è sia gratificante che impegnativa, la responsabilità più vincolante che puoi assumerti come persona. E’ quello che ci dice ‘La figlia oscura’, premio per la sceneggiatura alla Mostra di Venezia dell’anno scorso, opera prima di Maggie Gyllenhall che traspone sullo schermo in maniera abbastanza fedele l’omonimo romanzo di Elena Ferrante spostandone soltanto l’ambientazione dall’Italia ad un’isola greca. E’ qui che si trova in vacanza Leda Caruso (Olivia Colman), docente universitaria americana di letteratura italiana. Ha un delizioso appartamento in affitto proprio sulla spiaggia e si gode pace e tranquillità fino a quando non arriva una rumorosa famiglia italoamericana. Mentre li osserva Leda si interessa in particolare a Nina (Dakota Johnson), una ragazza il cui partner è emotivamente distante e la cui figlia è appiccicosa e bisognosa d’affetto. Un giorno la bambina scompare e Leda diventa una sorta di eroina dopo essere riuscita a ritrovarla. Eppure, senza motivo, le ruba la bambola preferita. Il resto del film è raccontato in due sequenze temporali: il presente e un passato complicato nel quale (nel ruolo qui c’è Jessie Buckley) si dimostra giovane madre quasi del tutto disinteressata nei confronti delle due figlie che vede come un ostacolo al suo desiderio di avere una carriera accademica. E’ il motivo per cui finisce per tradire il marito e abbandonare la famiglia per tre anni.

‘La figlia oscura’ è un film doloroso e disturbante ma anche un ritratto onesto e potente della maternità, molto coraggioso nell’affrontare questo tema e le scelte di vita che talvolta ad essa si associano. Lo fa scavando nella depressione senza parole della protagonista e nel mondo distorto che crea principalmente per se stessa, alimentato dai ricordi e dagli atti che è stata capace di commettere. Il tema centrale è quello dell'abbandono e della perdita, contro cui Leda sta lottando e che causa il suo isolamento. Quello che sostanzialmente il film chiede è cosa significhi per lei essere madre, qualcosa che la opprime nonostante ami le proprie figlie. Quali sacrifici si è disposti a fare per la carriera rispetto alla famiglia? E qual è il costo emotivo della libertà? Tutto questo l’ha resa una donna ai margini della società che ancora non ha trovato il proprio posto. 

Da sempre la maternità è vista come qualcosa di naturale, un istinto insopprimibile nella donna, da accettare senza se e senza ma. Il film mette in discussione questo postulato mostrando l’altra faccia della medaglia: paura, inadeguatezza, obblighi, rinunce. Ci mostra cose che non vogliamo guardare, le parti più oscure e meschine di noi stessi, quelle in cui non diamo il nostro meglio. ‘La figlia oscura’ accetta la bruttezza dandole spazio per esprimersi, senza confinarsi in un territorio sicuro e confortevole con una storia di ambizione, volontà e desiderio femminile contrastato. Insomma, mette in luce le parti scomode dell'essere madre, figlia e amante. Fino a diventare estranei a se stessi.

Quello della protagonista è un personaggio vivo, profondamente imperfetto, che può essere sia crudele che ferito. E il modo in cui Gyllenhaal incornicia con affetto questo ritratto poco lusinghiero è un affascinante promemoria del fatto che non tutti i film hanno bisogno di farci sentire a nostro agio.