Cultura e spettacolo

Da Kenneth Branagh una commovente lettera d’amore nei confronti della città in cui è nato
2 minuti e 53 secondi di lettura

“Per quelli che sono rimasti. Per quelli che se ne sono andati. E per tutti quelli che si sono persi”: è in questa dedica che leggiamo alla fine che è racchiuso il senso di ‘Belfast’, senza dubbio il film più personale che Kenneth Branagh abbia mai girato, una commovente lettera d'amore nei confronti della città in cui è nato. Riavvolgendo le lancette dell’orologio torna nell’agosto del 1969 quando erano appena iniziati i ‘Troubles’, come allora venne definito il conflitto nord-irlandese che si sarebbe poi intensificato con la presenza dell'IRA portando a trent’anni di violenza e incertezza. Quel periodo ce lo mostra attraverso gli occhi innocenti ed esuberanti di un bambino di famiglia protestante di nove anni, Buddy, che insieme alla madre e ai nonni vive in un quartiere misto dove tutti conoscono tutti mentre il padre lavora in Inghilterra.

Finora non si è mai preoccupato né di violenza né di odio interreligioso coltivando una fissazione romantica per una compagna di classe e trovando conforto nella passione per il cinema ma qualcosa inevitabilmente cambia quando viene schierato l'esercito ed erette barricate, tanto che attraversare la città diventa spesso un'odissea mentre il vicino di casa è giudicato per le opinioni politiche o per la religione che professa. Tutto questo Buddy lo percepisce ma ovviamente non lo capisce appieno anche perché la mamma e i nonni cercano di fare del loro meglio per proteggerlo fino a quando per tutti non arriverà il momento di decidere se rimanere nel quartiere dove hanno sempre vissuto o trasferirsi in un posto più sicuro e ricominciare da capo.

Con ‘Belfast’ Branagh cambia registro e dopo gli adattamenti di Agatha Christie si allontana dal mainstream per concentrarsi su un momento cruciale dell’infanzia e sulle persone che lo hanno aiutato a plasmare la sua personalità realizzando un film intimo e ambizioso nello stesso tempo come è accaduto a Cuaron con ‘Roma’ o a Sorrentino con ‘E’ stata la mano di Dio’.Il regista irlandese cattura i ricordi per rendere omaggio al luogo in cui ha vissuto prima di fuggire dal conflitto armato con la famiglia mostrandoci la sua formazione emotiva e cinematografica in cui i momenti di evasione dalla realtà davanti al grande schermo sono stati fondamentali. Noi, dal canto nostro, vediamo e sentiamo le cose come fa Buddy: in frammenti e sussurri, attraverso finestre aperte e porte appena socchiuse, lungo corridoi stretti e soggiorni angusti.

‘Belfast’ è un film ricco di sospiri e sguardi che ha in sé molte verità portandoci con enorme affetto e senza eccessi, nel suo bellissimo bianco e nero e con le splendide canzoni di un altro irlandese come Van Morrison, attraverso le strade di una città sull’orlo del collasso. Importante mai come in questo momento perché dall’Irlanda fino all'angolo più remoto del mondo le cause e le circostanze che possono determinare l’inferno non cambiano molto, illuminandoci sul fatto – casomai ce ne fosse bisogno - che siamo tutti burattini gestiti da un potere: politico, religioso o economico che sia.

Quello che alla fine emerge con chiarezza è che ciò che è fondamentale a Belfast è l'amore, i valori all'interno della famiglia, i legami indissolubili, le radici. E’ una verità che tocchiamo con mano dall'inizio alla fine, il magico raggiungimento di una matura consapevolezza attraverso gli occhi di un bambino che aiuta lo spettatore a mettere insieme i pezzi di un nostalgico ed emozionante puzzle. Fino all’inquadratura finale, dolorosamente romantica. Insomma, se c'è una cosa che questo film ha, è un'anima. Merce rara, nel cinema di oggi.