Cultura e spettacolo

Il film racconta la storia d'amore tra una spogliarellista di New York e il figlio di un oligarca russo
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La Palma d’oro è volata negli Stati Uniti. Ha vinto infatti ‘Anora’ di Sean Baker, un po' a sorpresa. A sorpresa non tanto perché non era accreditato dei favori degli addetti ai lavori quanto per il suo essere tutto sommato in qualche modo un mainstream, genere che raramente nei Festival viene preso in considerazione. Poi, va detto, non è male. Strizzando l’occhio a ‘Pretty Woman’, è un film su sesso e denaro, su due culture (russa e americana) e due lingue (russo e inglese) raccontando la storia, come innumerevoli fantasie hollywoodiane in passato, di due giovani provenienti da mondi diversi che si innamorano, incontrano ostacoli e ne affrontano le conseguenze. Solo che in questo caso la coppia è composta da una spogliarellista di New York e dal figlio di un oligarca russo.

Per il resto se il palmares di un Festival lo giudichi sulla base di ciò che più ti è piaciuto vedere, allora quello del 77esimo Festival di Cannes lo posso considerare soddisfacente, a partire dal secondo premio più importante, il Gran Prix, andato all’indiana Payal Kapadia con ‘All we imagine as light’ la storia di tre infermiere nella moderna Mumbai con un'atmosfera di insicurezza romantica ed emotiva che incombe sulla vita di queste donne. Un malinconico blues notturno che ritrae in maniera luminosa la femminilità indiana.

‘Emilia Perez’ di Jacques Audiard, tra i miei preferiti in assoluto, porta a casa addirittura due premi: quello della Giuria e quello per l’interpretazione femminile andato all’enesemble di donne che ne sono protagoniste. Meritatissimo, è stato ritirato da Karla Sofía Gascón che trasferisce nel personaggio di un boss del narcotraffico che vuole diventare donna la sua esperienza personale di transizione di genere avvenuta nel 2018. Più banale il premio per il miglior attore vinto da Jesse Plemons, il meno noto tra gli interpreti principali di ‘Kinds of kindness’ di Yorgos Lanthimos (gli altri sono Emma Stone e Willem Defoe). Anche il Premio per la regia non mi ha entusiasmato (a Miguel Gomez per ‘Grand tour’, un film fluviale ambientato nella Birmania coloniale della Prima Guerra Mondiale dove un funzionario britannico in infelice attesa dell'arrivo della donna con cui è fidanzato da sette anni inizia un lungo viaggio per non vederla con lei che lo insegue) mentre condivido in pieno sia il Premio speciale andato all’iraniano Mohammad Rasoulof per ‘The seed of the sacred fig’, coinvolgente thriller domestico sulla violenza patriarcale nel suo paese, ma soprattutto il Premio per la sceneggiatura a ‘The substance’ di Coralie Fargiat. Non pensavo potessero premiare una favola horror che è soprattutto una macabra parabola fantasy di misoginia e oggettivazione del corpo ma evidentemente (e fortunatamente) mi sbagliavo.

Da segnalare infine il momento più emozionante della Cerimonia di chiusura: la consegna di una seconda Palme d’honneur (dopo quella a Meryl Streep) a George Lucas. Lo ha premiato il vecchio amico Francis Coppola: grande commozione e tutti in piedi nell’Auditorium Lumiere.